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L’Ascensione, festa della missione

Giubilare

Foto di Simone Savoldi su Unsplash

Stiamo celebrando il “mistero pasquale” che comprende cinque momenti culminanti della vita del Signore: Passione, Morte, Risurrezione, Ascensione e Pentecoste (50 giorni dopo Pasqua). L’Ascensione conclude il periodo simbolico di quaranta giorni in cui il Risorto si manifesta ai suoi discepoli: “Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni.” (Atti 1,1-11, prima lettura). I “quaranta giorni” di cui parla qui San Luca non rappresentano un tempo cronologico. Infatti, nella conclusione del suo vangelo, egli parla unicamente del giorno della Risurrezione. Infine, notiamo che la festa è spostata da giovedì a domenica per permettere una più numerosa partecipazione dei fedeli.

L’Ascensione, la cenerentola delle feste cristiane?

Il pastore e teologo protestante Paolo Ricca ha scritto che l’Ascensione è diventata “la cenerentola delle feste cristiane”. L’Ascensione, infatti, è una festa che la Chiesa ha valorizzato poco, forse per il suo aspetto di mestizia dovuto alla “dipartita” definitiva di Gesù. Va detto, tuttavia, che “l’Ascensione è un modo di morire agli occhi e di nascere al cuore” (Michel Deneken, teologo francese). Ma allora perché il vangelo di Luca dice che, dopo l’Ascensione, gli apostoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”? (Luca 24,52). Perché l’Ascensione è l’altra faccia della Risurrezione, cioè dell’esaltazione di Gesù. Inoltre, in quanto testimoni della sua ascensione, prendono coscienza che, come Eliseo ereditò il carisma profetico di Elia per il fatto di avere presenziato la sua elevazione celeste (2 Re 2,1-14), così anche loro sono gli eredi dello Spirito di Gesù. L’Ascensione però porta anche a noi un messaggio gioioso di una doppia presenza. Da una parte, il Signore Gesù “elevato in cielo” garantisce comunque la sua presenza sulla terra, in mezzo ai suoi. Dice Sant’Agostino: “Cristo non ha lasciato il Cielo quando è disceso tra noi e non ci ha lasciati quando è salito in Cielo”. D’altra parte, noi stando ancora sulla terra siamo già con lui in cielo. La nostra vera abitazione è in Dio ma, con l’incarnazione, la dimora di Dio è l’umanità. L’Ascensione rivela che Gesù è la vera “scala di Giacobbe” che mette in comunicazione terra e Cielo.

Il brano del vangelo scelto per questa festa è la conclusione del vangelo di Marco, chiamata “finale canonica” (Marco 16,9-20), che gli studiosi ritengono non scritta dall’evangelista, ma aggiunta da un redattore anonimo verso la fine del I secolo o inizio del II. È un sommario dei racconti delle apparizioni del Risorto che troviamo in Matteo e Luca, perché il vangelo di Marco sembrava concludersi in un modo brusco e stroncato, con le donne impaurite che scappavano dal sepolcro (Marco 16,8). Questa aggiunta, comunque, è ritenuta dalla Chiesa parte integrante del vangelo.

L’Ascensione, Festa della Missione

Vorrei sottolineare la dimensione missionaria dell’Ascensione che non sempre viene messa sufficientemente in rilievo. Generalmente riteniamo la Pentecoste come la “festa della missione”, con l’effusione dello Spirito, la nascita della Chiesa e l’inizio della predicazione apostolica. Tutto questo è vero. Però, non possiamo lasciar passare sotto silenzio che il “mandato missionario” avviene il giorno dell’Ascensione, almeno nei vangeli sinottici, Matteo, Marco e Luca. Oggi, quindi, è la festa dell’invio della Chiesa in missione!

L’Ascensione è, contemporaneamente, il punto di arrivo per Gesù, cioè la fine del suo ministero, e il punto di partenza per la Chiesa, inviata in missione. I tre sinottici, sottolineano il legame stretto tra l’Ascensione e l’invio in missione:

  • “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16,15);
  • “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28,19);
  • “Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Luca 24,47).

L’ultimo incontro di Gesù con gli Undici è collegato con l’invio in missione. Al movimento verticale di Gesù verso il cielo corrisponde quello orizzontale degli apostoli verso il mondo. Gesù conclude la sua missione sulla terra e si rende “invisibile” per dare spazio, visibilità e responsabilità alla missione dei suoi discepoli sulla terra.

La Missione vista dall’Ascensione

Il brano del vangelo ci offre alcune indicazioni sulla missione:

  • La finalità: “proclamare il vangelo”. La missione riprende come Gesù l’aveva iniziata: “Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Marco 1,14-15).
  • La modalità: la predicazione della Parola, perché “è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Corinzi 1,21). È stoltezza per tutti, infatti, oggi come ieri, perché l’oggetto della predicazione è “il Crocifisso”. È questo l’ultimo nome di Gesù che troviamo nel vangelo di Marco: “Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso” (16,6; cfr. anche Matteo 28,5). Possiamo portare al collo il crocefisso in oro o in argento, ma non possiamo ignorare che adoriamo un uomo crocifisso, “scandalo per i giudei e stoltezza per i gentili” (1 Corinzi 1,23)!
  • I mezzi: andare, partire, perché la missione si fa, prima di tutto, con i piedi! Il primo nome della fede cristiana è “la Via” – così viene definita negli Atti degli Apostoli – e uno dei primi nomi per designare i cristiani è “gli addetti della Via” (Atti 9,2). Questa Via è detta “via di salvezza” (16,17), “via del Signore” (18,25), “via di Dio” (18,26). Se Gesù si è definito “la Vita” ogni suo discepolo/a è chiamato/a a diventare un sentiero che conduce i dispersi verso di essa. Una delle raffigurazioni dell’Ascensione mostra solo i piedi di Gesù sotto la nube. Gesù ci lascia i suoi piedi per continuare a percorrere i sentieri dell’umanità. Ecco perché Papa Francesco insiste tanto sulla “Chiesa in uscita”.
  • I destinatari, il luogoe i protagonisti della missione: “andate in tutto il mondo”, “dappertutto”, la missione non ha confini e non esclude nessuno. Oggi si sottolinea, giustamente, che ogni credente è una missione: “Io sono una missione su questa terra” (Evangelii Gaudium, 273). Inoltre, non si tratta soltanto di raggiungere i confini geografici, ma pure quelli esistenziali, come la società, la politica, l’economia, la cultura, l’ecologia, la tecnologia, i media, l’ambito professionale…
  • La sua caratteristica: l’universalità! La missione è rivolta “ad ogni creatura”. È tutto l’universo che deve essere evangelizzato, in vista dei “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2 Pietro 3,13; cfr. anche Apocalisse 21,1).
  • La necessità e l‘urgenza della missione! “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”! Questa affermazione ha una portata drammatica impressionante. È in gioco la salvezza del mondo! Oggi tendiamo a relativizzarla fin troppo, sino a negare la necessità della missione: “tanto, tutte le religioni sono uguali!”. Il sacro rispetto per la coscienza della persona, il diritto inalienabile alla libertà religiosa, il dovuto e arricchente dialogo tra tutti i credenti, non esimono il cristiano da questo dovere. San Paolo incarna questa necessità premente: “Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1 Corinzi 9,16). Il nostro battesimo è la “consacrazione alla missione”, mentre tanti cristiani l’hanno assunto “ad uso personale”.
  • I segni e i frutti della missione sono quattro: scacciare i demòni; parlare lingue nuove; trattare con serpenti e veleni; guarire i malati. Notiamo che questi segni/frutti avvengono in quelli che accolgono il Vangelo. Possiamo domandarci dove sono tali segni. Senza negare una interpretazione letterale, perché i segni/miracoli non sono mai mancati nella Chiesa, credo che tali segni abbiano una porta simbolica profonda valida per tutti i tempi. Cristo ci conferisce tali poteri:
    – il potere di scacciare i demòni della guerra e dell’odio, dell’ingiustizia e dell’egoismo che schiavizzano tuttora l’umanità;
    – il potere di parlare lingue nuove, non quelle di Babele che hanno portato alla divisione dell’umanità, ma quelle della Pentecoste che ci uniscono nell’armonia della diversità;
    – il potere di vincere le numerose trappole e seduzioni del Serpente e i veleni nascosti nella “logica mondana”;
    – e, soprattutto, di portare consolazione e speranza all’umanità ferita.

La missione è l’Ascensione in atto nella storia

La festa dell’Ascensione ci suggerisce anche la metodologia della missione. Sebbene la missione si presenta, innanzitutto, come un movimento orizzontale, verso il mondo per costruire la fraternità, in realtà il suo spirito è quello della verticalità: della “kenosi”, cioè l’abbassamento, e dell’elevazione (Filippesi 2,5-11); scendere per risalire. Infatti, “cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” (Efesini 4,1-13, seconda lettura di oggi). La missione obbedisce alla legge dell’incarnazione: scendere per poi risalire. Scendere vuole dire “farsi servo di tutti”, “farsi tutto per tutti” (1 Corinzi 9,19-23), inculturarsi per fare causa comune con ogni uomo e donna. Risalire è il movimento dell’elevazione dell’umanità e della creazione verso Dio. La missione è il travaglio dell’ascensione del mondo.

La missione ravviva la speranza dell’attesa

I due angeli dell’Ascensione annunciano agli apostoli: “Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. L’Ascensione comporta la speranza nel ritorno di Cristo per prenderci con sé. Oggi non sappiamo più aspettare. In ogni Eucaristia ripetiamo: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”! Ma quanti l’attendono davvero? Scrisse Paul Tillich, uno dei maggiori teologi del XX secolo: “Penso a quel teologo che non aspetta Dio perché lo possiede chiuso in un edificio dottrinale… Penso a quell’uomo di chiesa che non aspetta Dio perché lo possiede racchiuso in una istituzione. Penso a quel credente che non aspetta Dio perché lo possiede nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare di non avere Dio, di doverlo aspettare”.

La missione ha pure come compito di conservare viva la speranza e di aiutare l’umanità a tenere accesa la lampada della fede nell’attesa del ritorno dello Sposo. Sul ritorno di Cristo, infatti, incombe uno dei più inquietanti interrogativi del vangelo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18,8).

Per la riflessione settimanale vi propongo di meditare sulla seconda lettura: Efesini 4,1-13.

padre Manuel João Pereira Correia: