Niente conquista più il cuore di Dio dell’umiltà; nulla allontana di più da noi lo Spirito Santo come il sentirsi superiori, giudicare gli altri, credersi giustificati per le nostre opere. Sant’Agostino commentando il Vangelo di questa domenica (nel Sermo 115) ci ricorda che l’umiltà nasce dalla coscienza di essere peccatore, di non avere alcun diritto nei confronti di Dio (per questo il pubblicano sta a distanza).
Agostino, rifiutando la dottrina del pelagianesimo – l’uomo si salva da solo, senza la Grazia – diffusa ai suoi tempi ma ancora oggi presente nella Chiesa, afferma che la verità è la chiave del rapporto con Dio: solo l’umiltà è la verità. La vicinanza di Dio significa il suo perdono, mentre la superbia, che è menzogna, tiene lontano Dio.
Stiamo nella Chiesa, facciamo anche tante opere di bene ma se queste poi ci fanno sentire superiori agli altri, agli occhi di Dio saremo come il fariseo del Vangelo di Luca: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
La fede è l’opposto di questo atteggiamento, non appartiene a chi si sente giustificato dalle sue opere, superiore agli altri perché lui è bravo e fa cose tanto buone, proprio come il fariseo: infatti Gesù Cristo si è fatto uomo come noi, ha preso su di sé la nostra debolezza, si è fatto trattare da ultimo, da malfattore, perché anche oggi nessuno potesse essere escluso dalla salvezza.
Dio è vicino agli uomini che conoscono la propria fragilità, che hanno sperimentato la misericordia di Dio e che proprio in questa loro povertà lo hanno scoperto: chi ha incontrato Cristo, il Suo amore, non giudica nessuno, ha comprensione e amore per gli altri.
Soltanto la nostra povertà, che scopriamo amata da Dio, ci fa uomini nuovi. Possiamo allora “arricchirci” di Cristo per essere come Lui: testimoni della misericordia e strumenti di perdono.