Aprire una porta è un simbolo. Il simbolo è etimologicamente unione di due realtà, forma e contenuto. Il suo contrario è, sempre etimologicamente, il diavolo: colui che divide. Porre le mani su due ante per spingerle in avanti e aprirsi un varco può essere un gesto rituale stanco, visto e rivisto. Una forma, senza anima. Il portone può essere istoriato e decorato da un grande maestro. Il movimento accompagnato da canti sopraffini ed eseguito con ieratica supponenza. Oppure la porta può essere un cancello di legno verniciato di fresco e l’apertura può avvenire nel silenzio, in modo sobrio, quasi imbarazzato.
Quante porte sante si apriranno in questo mese di dicembre a imitare quel gesto che sarà compiuto in San Pietro il prossimo otto dicembre. Quante saranno davvero simbolo? Quante significheranno davvero lo spalancarsi del cuore di Dio sull’umanità più misera, imperdonabile? La vera possibilità di riscatto per coloro che non si meriterebbero nulla, per i più dimenticati al mondo?
Francesco parlando all’Onu, nel settembre scorso, ha chiesto ai grandi del mondo di fuggire la tentazione del “nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze”. Delle parole senz’anima. Al numero 231 dell’Evangelii Gaudium chiede alla Chiesa di evitare i “nominalismi dichiarazionisti”. E sembra chiederlo sempre anche a se stesso. Nessuna parola resta bidimensionale nella sua predicazione, ma si fa carne mentre è pronunciata, diviene, com’è stato scritto, ‘performativa’.
Così come, nessun gesto è un flash-mob per intrattenere la folla, ma rimanda, come l’invito a darsi la mano e ad alzare le braccia fatto nello stadio di Nairobi, a una reale urgenza, come, in Kenya, la necessità dell’unità per combattere le divisioni del tribalismo. Il Papa che condanna l’abuso dello smart-phone nelle situazioni conviviali familiari, mima efficacemente il gesto del telefonista inebetito. Al telefono con il direttore di TG2000, a poche ore dagli attacchi di Parigi, Francesco non sa cosa dire, è esterrefatto dalla disumanità di quei gesti. Non osa ragionare, sovrapporre la nuda, inutile, logica teologica, a quei corpi trucidati al Bataclan, ma incarna nella voce incerta l’inspiegabilità della sofferenza.
Gesti e parole che non sono vuota retorica, ma non sono neanche semplice comunicazione di idee, sono realtà. “Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione”, ha scritto ancora il Papa nell’Evangelii Gaudium. “Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo”, ha affermato il 10 novembre incontrando a Firenze i partecipanti al Convegno ecclesiale nazionale italiano.
Mettere in atto gesti concreti di misericordia, riconciliazione, solidarietà che incarnano la Parola, questa è la missione della Chiesa. Questo ci ha detto Francesco aprendo, contro tutto e contro tutti, il Giubileo straordinario a Bangui, nel cuore di un continente insanguinato, misero e sfruttato.