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Apolidia e diritti negati: è urgente correre ai ripari

Secondo la Convenzione di New York del 1954 (ratificata in Italia con la l. 306) apolide è la persona che nessuno Stato considera come suo cittadino. Comprendere le cause e l’impatto dell’apolidia, oltre a poter disporre di dati quantitativi e qualitativi affidabili, è di fondamentale importanza per aiutare queste persone e porre fine a tale violazione dei diritti umani.

Essere apolidi non è mai una scelta. A volte si nasce apolidi (si è figli di apolidi o non è possibile ereditare la cittadinanza dei genitori). Altre volte, si appartiene a un gruppo sociale al quale la cittadinanza è negata (spesso sulla base di discriminazioni razziali o religiose). In altri casi si diventa apolidi a causa di guerre o conflitti armati. O per motivi burocratici: lo stato di cui si era cittadini non esiste più e non si appartiene e nessuna delle nuove entità nazionali (come per la ex Jugoslavia). Oggi sono milioni gli apolidi. In tutto il mondo. Essere apolidi significa non poter far valere i propri diritti fondamentali. Anche quelli che solitamente vengono dati per scontati. Queste persone diventano “invisibili”. Il fatto stesso di essere apolidi, rende difficile poter dire con certezza quanti sono. I dati sull’apolidia sono disponibili solo una minoranza di paesi a livello globale. E sono pochi i paesi che hanno firmato e ratificato gli accordi internazionali sull’apolidia: ad oggi, solo 96 paesi hanno firmato la Convenzione ONU del 1954 sullo status degli apolidi e solo 76 hanno sottoscritto la Convenzione ONU del 1961 sulla riduzione dell’apolidia (recepita in Italia nel 2015).  Ma non basta: spesso, agli apolidi si aggiungono gli individui “non registrati”. Già perché spesso bisogna lottare anche solo per essere riconosciuti “apolidi”.

Anche in Europa sono tanti gli apolidi. E anche qui, costituisce una barriera insormontabile per godere dei diritti umani considerati fondamentali: istruzione, lavoro, possibilità di formare una famiglia. Qualche anno fa, uno studio dell’UNHCR su tre paesi europei (Spagna, Portogallo e Italia) mise in luce come l’apolidia non è un problema che riguarda solo l’Africa o l’Asia. I problemi non mancano anche nei paesi “sviluppati”, a volte all’avanguardia per gli sforzi per porre fine all’apolidia (hanno aderito alle due Convenzioni sull’apolidia, hanno predisposto salvaguardie contro l’apolidia all’interno delle proprie leggi sulla cittadinanza e, due di loro, Spagna e Italia, sono anche fra i pochi paesi ad aver istituito una procedura di determinazione dell’apolidia). Anche in questi paesi spesso è difficile sapere quanti son realmente gli apolidi: molte volte i dati fanno riferimento alle richieste di riconoscimento dello stato di apolidi. In Italia, è possibile farlo in due modi: con un procedimento amministrativo o con un procedimento giurisdizionale (di solito avviato dopo che il primo non è andato a buon fine). I criteri restrittivi che limitano l’accesso alla procedura amministrativa (così come gli oneri finanziari e i passaggi burocratici legati alla procedura giudiziaria), fanno sì che il numero di apolidi che riescono a vedere riconosciuto il proprio status è molto limitato. A questo si aggiunge che le procedure possono richiedere tempi molto lunghi (sono stati registrati casi in cui è durata diversi anni). Solo dopo aver ottenuto il riconoscimento formale del proprio status gli apolidi acquisiscono l’accesso effettivo ai diritti e al welfare, oltre al diritto di ricevere documenti d’identità e di viaggio.

Migliaia gli “invisibili” sin dalla più tenera età. Secondo l’UNHCR, a livello globale, nasce un bambino apolide ogni 10 minuti. Oltre un terzo degli apolidi nel mondo sono bambini. Un marchio che potrebbe segnarli per il resto della loro vita, anche dopo la morte: anche i loro figli saranno apolidi. In assenza di un riconoscimento formale, molte delle salvaguardie contro l’apolidia alla nascita non trovano applicazione (e contribuiscono alla trasmissione e diffusione dell’apolidia). É vero che, finché minorenne, un apolide ha diritto all’istruzione e ai servizi sanitari. Ciò nonostante, molti apolidi minorenni (anche tra quelli che hanno ottenuto il riconoscimento del proprio status) incontrano difficoltà per colmare il ritardo accumulato nel percorso scolastico rispetto ai coetanei. Anche solo praticare uno sport a livello agonistico diventa un problema quando non si possiedono documenti d’identità. Diventato maggiorenne, per chi non ha documenti non è facile iscriversi all’università. Anche gli apolidi che dispongono di permessi temporanei spesso incontrano difficoltà quando cercano un lavoro regolare. Per loro diventa difficile anche formare una famiglia: il matrimonio non può essere registrato, riconoscere i propri figli anche in una condizione di irregolarità è difficile (a seconda delle circostanze potrebbe richiedere la presenza di testimoni o affrontare altri complessi passaggi burocratici per poterli riconoscere). Anche solo spostarsi da una città all’altra può diventare un problema, per paura di essere sottoposti a controlli che potrebbero sfociare in un ordine di espulsione o in un periodo di detenzione amministrativa.

In Europa, la percentuale di apolidi minorenni dovrebbero essere minore che altrove, ma, ancora una volta ci sono pochi dati certi: in molti paesi europei mancano statistiche affidabili e anche quando sono disponibili alcuni dati spesso non sono disaggregati per età, quindi è impossibile distinguere quanti tra loro siano bambini. La mancanza di numeri sull’entità dell’apolidia infantile in Europa sta contribuendo ad aggravare ulteriormente il problema riducendone la visibilità e compromettendo la capacità delle parti interessate di intraprendere le azioni necessarie.

In alcuni paesi europei, anche quando le autorità parlano di “stima del 100% di registrazione delle nascite” grazie a sistemi di registrazione “completi e tutti gli eventi vitali (comprese le nascite) sono registrati”, la verità è un’altra: non tutti i bambini vengono registrati alla nascita. La necessità di migliorare i dati sull’accesso dei bambini alla nazionalità, nonché sulla portata e sull’impatto dell’apolidia infantile, è un altro problema che riguarda gli apolidi o presunti tali. Sarebbe necessario che gli organi governativi competenti “riesaminassero quali dei loro sistemi di raccolta dati acquisiscono dati relativi all’apolidia infantile – compresi i tassi di registrazione delle nascite – e apportano miglioramenti, se necessario, ai metodi di raccolta dati interessati”. E fare un uso migliore di “quadri come lo stato parte che riferisce al Comitato sui diritti dell’infanzia e altri organismi per i diritti umani, nonché meccanismi all’interno del quadro dell’UE, per promuovere la generazione e la diffusione sistematiche di dati affidabili sull’accesso dei bambini alla nazionalità”.

La Convenzione del 1954 stabilisce che agli apolidi sia riservato un trattamento pari almeno a quello cui hanno diritto gli stranieri titolari di cittadinanza. In teoria, la naturalizzazione delle persone apolidi dovrebbe essere favorita e agevolata. Ma sono pochi i casi in cui ciò avviene.

Diversi i motivi. Oltre a quelli già citati, non bisogna dimenticare che oltre il 75% degli apolidi conosciuti appartiene a gruppi minoritari già vittime di discriminazione. Per molte di queste persone spesso è difficile anche solo sapere cosa fare per farsi riconoscere apolidi. Secondo alcuni studi, per molti di loro è un problema accedere alle informazioni (anzi spesso hanno ricevuto informazioni scorrette, confuse e fuorvianti). Intervistato dai ricercatori un ragazzo, costretto a vivere in apolidia per tanti anni, ha detto: “solo quando possiedi una cittadinanza sei una persona libera”.

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