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Anticorpi monoclonali contro il Covid: prospettive e limiti

Una percentuale consistente di soggetti infettati con SARS-CoV-2 può andare incontro ad una malattia più severa, con interessamento delle vie aeree inferiori e polmonite che richiedono cure e supporto appropriato. Inoltre, un numero più limitato di soggetti può manifestare complicazioni respiratorie e coinvolgimento di altri organi e apparati che rendono la COVID-19 una malattia molto severa e ad esito fatale, soprattutto in soggetti d’età avanzata e con altre malattie concomitanti (comorbidità). Una rilevante prospettiva di sviluppo della terapia anti-Covid è offerta dalla produzione di anticorpi monoclonali.

Impiegati da tempo in terapia per patologie non infettive (tumori, malattie autoimmuni), l’impiego di anticorpi monoclonali in profilassi rappresenta uno sviluppo teorico della strategia di immunizzazione passiva applicata alla prevenzione della COVID-19. Gli anticorpi monoclonali sono prodotti industriali ma non di sintesi: si procede partendo da prodotti naturali, gli anticorpi neutralizzanti, individuati nel siero dei soggetti guariti e questi, mediante processi di clonazione intensiva, vengono riprodotti in grandi quantità. Alcuni di questi prodotti hanno tempestivamente ottenuto la registrazione da parte delle autorità regolatorie statunitensi ed europee (Fda ed Ema) con l’indicazione per il trattamento. Un problema è l’elevato costo di produzione, per cui gli anticorpi monoclonali possono verosimilmente essere destinati solo ai Paesi a elevato reddito, almeno inizialmente. Tuttavia, la produzione di “biosimilari” consentirà di ridurre drasticamente i costi (come avviene per i farmaci “generici” o “equivalenti”) e renderli accessibili anche ai Paesi a economia intermedia o bassa (dove vive l’85% della popolazione mondiale!).

In India e in Cina sono da tempo attive numerose companies con vaste capacità produttive di biosimilari. Di fatto, tuttavia, l’impiego degli anticorpi monoclonali non rappresenta una soluzione praticabile per una profilassi passiva, se non per circostanze speciali, rappresentate fondamentalmente da soggetti immunocompromessi esposti a particolari situazioni di rischio. Si parla correttamente di profilassi pre-esposizione (pre-exposure prophylaxis, PrEP) che viene attuata con l’impiego, eventualmente in combinazione, di anticorpi monoclonali, specie in formulazione long-acting intramuscolare. Certamente più attuabile ed effettivamente praticato è l’impiego di monoclonali in strategie di profilassi post-esposizione (post-exposure prophylaxis, PEP), la cui efficacia è dimostrata se somministrati entro 3-5 giorni dalla comparsa dei sintomi o, ancor meglio, dal contatto stretto con un caso di COVID-19 confermato o sospetto. La stessa strategia viene perseguita con l’impiego di farmaci antivirali: da tempo attuata con l’impiego di Remdesivir, due antivirali specifici, Molnupiravir e Paxlovid, sono stati registrati del tutto recentemente. Classicamente esiste un’ulteriore possibilità di profilassi, la chemio- profilassi.

In considerazione di un razionale di efficacia in vitro è stato preconizzato l’impiego della clorochina e soprattutto dell’idrossiclorochina nella PrEP, confortato anche da risultati di piccoli studi non controllati. In considerazione dell’esperienza acquisita dal vasto impiego clinico (sia come antimalarico sia come antinfiammatorio) che ne ha testimoniato la sostanziale sicurezza, ma soprattutto in ragione del basso costo, da più parti, anche con veemenza, se ne è sostenuto l’impiego. Tuttavia, in vari studi randomizzati controllati non è emersa una significativa differenza di efficacia fra trattati e non trattati o vs placebo per quanto concerne il raggiungimento degli end-points (diminuzione dei contagi, miglioramento clinico). Al contrario sono emerse preoccupazioni per eventi collaterali avversi di tipo cardiologico, che hanno determinato l’abbandono di questa proposta. Le strategie di profilassi immunologica “attiva” (vaccini), “passiva” (anticorpi monoclonali) o farmacologica (chemioterapia) di fatto sono state in tempi rapidi praticabili solo per i vaccini. Resta tutta l’importanza delle strategie di contenimento antiche, non tecnologiche, ma sicuramente affidabili: gli interventi di prevenzione non farmacologici fondati sul distanziamento fisico e sociale, sull’impiego di dispositivi di protezione individuali (DPI) e sul frequente lavaggio e disinfezione delle mani. L’infezione da SARS-CoV-2 si trasmette per via respiratoria. Il principale veicolo di contagio è rappresentato dalle droplets (particelle di muco e saliva di diametro > 5-10 µm), emesse con tosse, starnuti e anche semplicemente respirando e parlando, specie ad alta voce. Le strategie di prevenzione sono dirette quindi alla protezione nei confronti delle droplets, responsabili della stragrande maggioranza dei contagi.

Accertata è anche l’importanza della diffusione tramite particelle del diametro compreso fra 2 e 5 µm sospese negli aerosol. Questa possibilità è dimostrata sperimentalmente ma è tuttora discusso se in queste condizioni le basse cariche virali siano effettivamente infettanti. Si raccomanda comunque di arieggiare frequentemente gli ambienti chiusi. La strategia di protezione fondamentale risiede nell’evitare gli affollamenti. La conoscenza di come il virus sia in grado di interagire col sistema immunitario, l’identificazione delle potenziali  strutture  target per lo sviluppo di un vaccino e le interazioni del virus stesso con il sistema immunitario sia stimolandone la risposta, ma anche inducendo una iperreattività in alcuni casi negativa, sono tutti aspetti che sono stati approfonditi in pochissimi mesi o settimane, da quando l’infezione ha fatto la sua comparsa sino a quando ha raggiunto i livelli di pandemia.

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