Il vero aspetto drammatico dell'Amazzonia che va a fuoco è che si tratta di un disastro che non lascia spazio né al retorico né ai luoghi comuni. Perché è vero che se la foresta pluviale sudamericana brucia, con lei se ne va in fumo anche uno degli ecosistemi che regolano gli equilibri della vita terrestre. Niente che non si sappia, a ben vedere, perché la questione del “polmone verde” è qualcosa che a ognuno di noi è stato insegnato fin dalle prime classi scolastiche. Il punto è capire fin dove si è in grado di comprendere il concetto: perché il ritmo con cui l'Amazzonia va a fuoco sfiora numeri da capogiro (con quadrati bruciati grandi come interi Paesi) ed è altrettanto vero che l'allarme per lo stato di salute di una regione che da sola copre praticamente tutta la parte settentrionale del Sud America, non è questione di oggi e nemmeno di ieri. Ora gli incendi sono semplicemente aumentati, peraltro in maniera drastica: dell'83% secondo i dati dell'Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile, 73 mila in tutto quelli accesi nel Paese, il 52% solo in questa zona.
L'insediamento della presidenza di Jair Bolsonaro, a giudizio delle principali organizzazioni per la tutela ambientale, ha rappresentato il punto di svolta in negativo, considerando il nuovo input fornito allo sfruttamento delle risorse minerarie (e non solo) dell'area amazzonica, che ha prodotto un incremento considerevole dell'azione dei taglialegna, la nuova linfa vitale alla già nota politica di deforestazione (utilizzata in buona parte per guadagnare spazio per le coltivazioni) e, non ultimo, la riduzione sensibile degli spazi vitali per le popolazioni indigene, così come la distruzione di un ecosistema fra i più floridi e al tempo stesso fragili del pianeta. Un binomio, quello fra incendi e deforestazione, che per l'Ipam (Amazon Research Institute) si sovrappone, identificando le aree bruciate come corrispondenti a quelle vittime del disboscamento. Il risultato è un'emergenza a livello globale, quella più impellente anche se non l'unica di quest'anno, in cui ad andare a fuoco è stata addirittura la taiga siberiana. Senza considerare che il riscaldamento globale ha iniziato a staccare pezzi di calotta polare in Groenlandia, diventata notevolmente più fragile e non solo per il luglio artico più caldo degli ultimi decenni.
In sostanza, se il fuoco si mangia le foreste dell'Amazzonia, mangia indirettamente anche tutto il resto, non solo la più grande riserva d'ossigeno della superficie terrestre, con conseguenze a catena che, per il momento, possono solo essere stimate. In connotazioni ultra-negative, naturalmente. Il tutto in barba agli appelli ripetuti per una politica di sviluppo sostenibile che, nonostante occupi i palchi delle Cop, continua a restare nel novero delle buone intenzioni più che dei fatti concreti. In Brasile la percezione del problema c'è ma il tutto sembra risolversi nello scontro politico: Bolsonaro grida all'allarmismo ambientalista, poi se la prende con le ong e manda a casa il direttore dell'Inpe, Ricardo Galvao, mentre il resto del mondo mette sul banco degli accusati una politica di sviluppo che sembra aver dato nuovo impulso alla deforestazione della regione amazzonica piuttosto che spendersi in opere di salvaguardia che tenessero conto almeno in parte dei continui allarmi lanciati sull'emergenza climatica. Che, va da sé, si porta dietro la possibile (probabile) distruzione delle biodiversità e delle ultime rappresentanze di popolazioni autoctone, specie di quelle incontattate che traggono dalla foresta il loro sostentamento e, allo stesso tempo, ne garantiscono la sopravvivenza attraverso pratiche di salvaguardia ancestrali che, oggi come oggi, non sembriamo in grado di comprendere. Del resto, nemmeno lo svilimento autodistruttivo di uno dei principi basilari della nostra formazione sembra far breccia. Perlomeno non quanto dovrebbe se il nostro futuro continua letteralmente ad andare in fumo davanti ai nostri occhi.