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Alla ricerca di una politica europea

Sostiene Romano Prodi, il Professore e non l’ultimo degli arrivati sulla scena, di non riconoscere più questa Unione Europea. Strano, essendo esattamente quella costruita con le sue idee e con le sue regole. Quella che l’ex premier e tanti altri innamorati dell’”europeismo” hanno tratteggiato sin dagli anni Novanta. “Certo la mia Europa sì. Ma spero che la crisi la svegli. Ora possiamo solo aggiungere: preghiamo”, ha affermato l’ex leader dell’Ulivo nei giorni scorsi, “l’augurio è di poter ancora costruire un’Europa che possa reggere, anche se non con un ruolo da leadership come speravo, il confronto con i giganti del mondo”.

Ecco, forse il punto vero è questo. Il nuovo ruolo dell’Italia all’interno di questo contesto internazionale. Al netto del fatto che Prodi non si fa troppe illusioni sul futuro dell’Unione, sempre più divisa ormai tra interessi nazionali e chiusure politiche, con la Gran Bretagna che ha accelerato il processo di distacco deciso con il referendum, va sottolineato come il nostro Paese, in virtù di una campagna elettorale permanente, abbia sprecato gli ultimi due anni in corpo a corpo senza senso con la Ue e la Germania.

A cosa ha portato questa sorta di lotta greco-romana? A nulla, se non ad una crisi dei conti e ad una rigidità politica dei partner nei nostri confronti. Tutte cose che non possiamo permetterci. Non a caso la trattativa con l’Europa sulla correzione dei conti e anche il ritocco al ribasso delle stime del Fmi sulla crescita, avviate dal premier Paolo Gentiloni con la sua missione a Berlino, mettono a nudo quello che è il vero impegno programmatico del governo in carica. Che non è tanto la manovra correttiva, che vale qualche decimale di punto, ma la strategia economica complessiva dell’Italia. Proprio per questo la legislatura sembra destinata ad “allungarsi” sino al 2018.

Non si tratta, quindi, di vedere se i toni di Gentiloni assomiglieranno a quelli di Renzi – dato che risulta quanto mai difficile vederlo litigare, sia pur metaforicamente, con Juncker o la Merkel – ma di verificare se cambierà qualcosa nella sostanza delle scelte europee dopo la sconfitta referendaria. Tra i dati politici più pesanti del 4 dicembre c’è stata la bocciatura delle misure dell’ex esecutivo su cui sarà necessario un ripensamento. Ed è qui che tornerà in campo l’antico dilemma che ha attraversato anche gli ultimi tempi della gestione renziana: se continuare a muoversi sul filo degli “zero virgola” o se mettere nel conto uno sforamento più corposo delle regole Ue per tirare su il Pil. Insomma, siamo di fronte ad un crocevia storico, rinviato solo per tirare a campare. Con i costi che sappiamo.

A voler essere ancor più chiari è del tutto evidente che negli ultimi anni è completamente mancata una politica comunitaria dell’Italia, troppo attenta a guardarsi l’ombelico, scordandosi che il mondo va oltre. Errori tattici che, nel lungo periodo, producono effetti devastanti. Torniamo per un attimo a Berlino. Il premier Gentiloni ha affermato che c’è un cambio di passo, rispetto al governo Renzi, anche nei rapporti internazionali dell’Italia in Europa. Forte della sua lunga esperienza politica, e con il meditato suo lavoro come ministro degli Esteri, si è ben inserito nel gioco di specchi diplomatico in atto oggi in Europa.

Ha condotto il suo incontro con Angela Merkel nella giusta prospettiva internazionale. E tale prospettiva è quella secondo cui l’arrivo di Trump non potrà che rendere irreversibile la Brexit e quindi delineare un nuovo ruolo del Regno Unito rispetto agli Usa, qualificando la posizione internazionale di questa potenza come una sorta di ponte diplomatico ed economico tra gli Washington e Pechino.

Grazie ai rapporti precedentemente stabiliti con la Cina, infatti, il ruolo della Gran Bretagna è oggi quello di essere un lungo ponte tra gli l’America e il Paese asiatico, un ponte che tuttavia non passa più per l’Unione europea, ma per Londra.

La stessa cosa sta capitando con la Francia che, come ha ribadito recentemente Hollande nel suo incontro africano in Mali, si candida a essere il ponte occidentale in Africa rispetto ai cinesi: gli Usa, se vorranno negoziare con gli stati africani, dovranno parlare con i francesi che si autodefiniscono come gli interlocutori del dialogo Usa-Cina in Africa. Dunque litigare non serve, occorre dialogare. Per trovare la giusta collocazione nel puzzle che si va formando all’interno dell’asse Londra, Parigi Berlino. E Roma deve decidere se farne parte o meno.

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