Ricorre oggi l’anniversario dell’ormai mitica March on Washington for Jobs and Freedom svoltasi domenica 28 agosto del 1963, organizzata congiuntamente dal movimento per i diritti civili, da associazioni sindacali e religiose, alla quale presero parte 250 mila persone e che si concluse con un famosissimo discorso di Martin Luther King, passato alla storia per uno dei suoi passaggi: I have a Dream.
Nei primi anni Sessanta, negli Stati Uniti, le numerose e frequenti dimostrazioni contro le discriminazioni sono represse con brutali interventi della polizia e anche di associazioni segregazioniste. Spingono tuttavia il presidente John Fitzgeral Kennedy, sollecitato dal fratello Robert, procuratore generale del Dipartimento di Giustizia, timoroso dell’abbandono della lotta non violenta, predicata dai leaders storici dell’emancipazionismo, Martin Luther King in primis, nel giugno 1963, a presentare al Congresso la proposta del Civil Rights Act, un’articolata legge che si proponeva di garantire il diritto di voto agli Afroamericani, garantendo la parità con i bianchi nei servizi pubblici e privati.
Non si trattava solo delle perduranti condizioni di discriminazione-segregazione negli Stati del Sud, ma delle generali, forti disparità economiche: è stato calcolato che nel 1963 gli afroamericani guadagnavano 55 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un americano bianco e il 55%, di essi viveva in condizioni di povertà.
Malcom X, leader carismatico dei Black Muslim, che assieme al Black Power e al Black Panther Party, costituì la componente più radicale del movimento emancipazionista, intervenendo, come invitato, al Cairo, a un vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana, rivolgendosi idealmente “ai fratelli e alle sorelle africane”, affermò: “L’America è peggiore del Sudafrica, perché non solo è razzista, ma e anche furba e ipocrita […]. Predica l’integrazione praticando la segregazione”.
In questo contesto matura l’idea di una grande manifestazione nazionale a Washington, nel cuore degli Stati uniti con il proposito di rivendicare, di fronte al potere federale ma anche all’opinione pubblica nazionale e internazionale, diritti civili e diritti sociali, come evidenzia il riferimento congiunto al lavoro e alla libertà, recependo le indicazioni delle componenti più attente alle tematiche sociali.
Il luogo del raduno era stato fissato intorno al Washington Monument, l’obelisco alto 169 metri al centro della città. La marcia avrebbe dovuto percorrere circa metà del National Mall, il parco monumentale che collega Capitol Hill, dove ha sede il Congresso degli Stati Uniti, con il Lincoln Memorial. Il percorso era lungo un chilometro e la marcia sarebbe terminata davanti al monumento dedicato a Lincoln, dove i leader del movimento avrebbero tenuto un comizio.
Kennedy, messo al corrente dell’iniziativa, si era mostrato contrario perché era propenso a delle soluzioni politico-istituzionali e temeva che i cortei di proteste di strada comportassero violenze dei e contro i manifestanti. Gli ambienti conservatori presenti e forti anche nel Partito democratico gli rimproveravano una linea troppo morbida.
La partecipazione, nonostante i timori, è imponente: 250 mila uomini e donne di tutte le età e, fatto non usuale, neppure previsto, non solo della comunità afroamericana, pur prevalente per circa l’80%. Partecipano anche attori e cantanti di grande notorietà: Marlon Brando e Charlton Heston, Joan Baez, Bob Dylan e Mahalia Jackson.
Davanti al Lincoln Memorial, monumento di forte impatto simbolico, si alternano nel palco interventi degli organizzatori e momenti di preghiera. Cantano Bob Dylan e Joan Baez e Mahalia Jackson, la regina del gospel. Luther King era stato incaricato del discorso conclusivo. Dopo aver letto alcune pagine del testo scritto, sollecitato a gran voce da Amalia Jackson a “parlare del sogno”, prosegue, parlando a braccio, con tutta la sua straordinaria abilità retorica, maturata negli anni a partire dalla sua esperienza di pastore della Chiesa Battista.
Ne derivò un discorso di diciassette minuti, con citazioni della Bibbia, di Lincoln, di Shakespeare, di Gandhi, ma anche di Malcom X, entrato nella memoria collettiva americana, anche perché l’intera manifestazione fu trasmessa in diretta televisiva dalla CBS con indici d’ascolto crescenti nella giornata.
È diventato una vera e propria leggenda il brano che inizia con i ripetuti incipit, I have a Dream. L’efficace uso dell’anafora, secondo la raffinata tradizione omiletica anche per il lettore di oggi appare quanto mai suggestivo e indubbiamente contribuì alla sua notorietà internazionale e all’assegnazione, l’anno successivo, nel 1964, del Premio Nobel per la pace. Vale la pena riproporlo per intero nella traduzione italiana.
“Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.
Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di annullamento delle leggi federali, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme”.