Il 27 marzo 2020, sul far della sera, papa Francesco entrava in una Piazza San Pietro deserta. Raggiunto il fondo della piazza, risaliva sotto la pioggia, da solo, verso la Basilica, e giunto lì dove tutto era stato predisposto per la sua allocuzione dopo una breve introduzione diceva le parole che più hanno colpito: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.
Da quell’anno il 27 marzo è anche memoria di quel discorso, di quella piazza deserta ma in realtà mai così piena di sguardi, di attese, di ansie rinchiuse dentro le proprie abitazioni ma bisognose di unirsi a qualcuno capace di dare un senso, una prospettiva, alla propria situazione di colpo immersa in una novità tanto inattesa quanto paurosa. Quella sera, o almeno quella sera, anche chi non lo riconosce non ha potuto negare che Jorge Mario Bergoglio, Francesco, sia il leader morale globale di un mondo fratturato. Quella sua allocuzione diede un senso e uno spessore diverso a quel cantare dai balconi, o dalle finestre, con cui in tanti tentavano di farsi sentire nel silenzio spettrale delle nostre città.
“Tutti chiamati a remare insieme” … Queste parole hanno evidenziato il problema: qualcuno dovrà scegliere la rotta della nostra navigazione. Ma come formarsi un’idea al riguardo? Chi seguire? E’ qui che la pandemia di ieri – che sembra così lontana da renderci poco attenti anche alle voci ora autorevoli che la vorrebbero, come allora quasi escludevamo, prodotta da una fuga di laboratorio – si collega alle pandemie di oggi. La prima è quella di una strana indifferenza, anche a noi stessi: siamo tutti attenti a “grandi polemiche”, ma ci contagia l’indifferenza davanti alla rinuncia di fondi europei per una sanità, la nostra, che boccheggia. E’ giusto? E’ sbagliato? Sembra non interessi che a pochi. Ma stranamente qui si annida il secondo virus, l’altra pandemia, quello della polarizzazione. Sembra quasi che solo le posizioni più estreme abbiano diritto di cittadinanza nel nostro confronto. E così una disattenzione per il nostro domani ci contagia con la necessità di unirci a ciò su cui tutti urlano per l’oggi: è la radicalizzazione del confronto senza discernimento. Se guardo a quando accade in Francia, al di là del merito, mi sembra che il contagio non sia solo italiano.
La democrazia non può essere ridotta a un virtuale referendum quotidiano su temi sempre più urlati, più estremi, su rappresentazioni sempre più polarizzate. Prendiamo la guerra: non è un argomento che induce alla pacatezza, ma richiede nervi saldi e pensieri complessi. E’ in ballo il destino di popolo, di un continente, forse del mondo. Ci possiamo confrontare così al riguardo di questo? Uno urla, “basta armi, vogliamo la pace!” Certo, ma per fare la pace e fermare il fuoco occorre essere in due. Si può disarmare solo uno in un conflitto? O non è che le armi garantiscano quell’equilibrio sul terreno che solo può portare al negoziato? “Armare non per vincere, ma per evitare che la parte aggredita sia sconfitta”, hanno detto in buona sostanza tanto Jurgen Habermas che Edgardi Morin. Pacifisti, sì, ma giudiziosi. Ma questa voce poco si sente, come non si sente la voce che dice “la mia guerra non può essere uguale alla tua”: vale a dire che se tu attacchi con barbarie i civili io non risponderò con armi efficaci ma anche cancerogene, perché io difendo, o direi di difendere, quei valori che tu attacchi. Ma anche questa voce poco si sente. E così la guerra avvelena il nostro confronto, riduce le nostre difese immunitarie, le vuole sconfiggere. Ha ragione Massimo Cacciari; il linguaggio prescinde dal ragionamento. Nel suo recente messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali Francesco ha scritto: “Oggi, nel drammatico contesto di conflitto globale che stiamo vivendo, è quanto mai necessario l’affermarsi di una comunicazione non ostile. Una comunicazione aperta al dialogo con l’altro, che favorisca un “disarmo integrale”, che si adoperi a smontare “la psicosi bellica” che si annida nei nostri cuori, come profeticamente esortava San Giovanni XXIII, 60 anni fa nella Pacem in Terris”.
Questo virus terribile, il virus della polarizzazione, arriva a infettare, contagiare gli altri campi del nostro confronto sociale. Quando sento parlare di migrazioni, o di diritti, raramente sento argomenti che toccano vite, la realtà degli uni o di altri, ma questioni, questioni importanti, certamente, ma esposte in quell’assoluto lontano dai fatti concreti e dell’oggi, che ne trasformano sempre più i termini, facendo di noi dei “guerrieri culturali”. Ho sentito dire che parliamo di guerra come fosse una partita di calcio e che andiamo allo stadio come andassimo in guerra. E’ così…
A me sembra che questo ci dica che non sappiamo più vivere la democrazia. Non si tratta di votare ogni giorno “sì o no”: ma di volgerci a un bene che è più grande di noi. Per questo la democrazia è una barca che ci unisce nella navigazione comune, dove insieme scegliamo la rotta che ogni volta ci sembra migliore per servire il bene comune, non per essere contro qualcuno. E invece a me sembra evidente la forza contagiosa dell’essere contro, non per. Io non credo che Dio si scandalizzi a vedere una donna velata, o una in minigonna. Ma se lo pensassi, se pensassi che qualcosa – scelga il lettore cosa – lo offenda, potrei sempre darne testimonianza, senza bisogno di dichiarare guerra a qualcuno. Dovremmo imparare, gli uni e gli altri, che la pace non è di chi urla di più; la pace è inclusiva, o non è pace.