L’11 Settembre 2001, poche ore dopo l’attacco all’America dei terroristi di al Qaida – quasi 3.000 vittime, a New York e a Washington -, la regina Elisabetta II esprimeva, scrivendo al presidente George W. Bush, “l’incredulità” e “lo sconcerto”, suo e del suo popolo, davanti a quanto accaduto: lei era al castello di Balmoral, in Scozia, e seguiva gli eventi. Dispose che il giorno dopo il cambio della guardia a Buckingham Palace si svolgesse nel segno della solidarietà agli Stati Uniti, bandiera a mezz’asta e l’inno americano.
Quella vicinanza, immediata e sincera, è stata ricordata, giovedì scorso, dal presidente Joe Biden, nell’esprimere il cordoglio per la scomparsa della regina che “ha definito un’era”, “donna di Stato dalla dignità e dalla costanza incomparabili”. Biden ha citato il suo contribuito “a rendere speciale la relazione tra Stati Uniti e Regno Unito” e ha menzionato la solidarietà di Elisabetta verso gli Usa nei giorni bui dell’attacco terroristico, “quando ci ricordò in modo toccante che il dolore è un prezzo che paghiamo per l’amore”.
E quasi a ricambiare il gesto della regina, Biden ha ordinato bandiere a mezz’asta alla Casa Bianca e sugli edifici pubblici negli Stati Uniti in segno di rispetto per Elisabetta II. C’è anche questo segno distintivo nelle celebrazioni del 21° anniversario dell’11 Settembre 2001, l’intensità dei cui riti va sbiadendo di anno in anno: il tempo rende slavati i ricordi, cambia le vite dei superstiti, porta via protagonisti e testimoni. Ormai circa un americano su quattro non ha negli occhi un proprio ricordo di quegli eventi, perché era troppo piccolo o non era ancora nato.
L’anniversario di domenica, poi, altera i ritmi delle celebrazioni: il minuto di silenzio a Wall Street, ad esempio, è stato osservato in apertura della seduta di venerdì, perché i templi della finanza chiudono la domenica. E così pure è successo in molte scuole e luoghi di lavoro. Altri riti, invece, restano inalterati: la chiama delle vittime là dove c’era il World Trade Center e poi Ground Zero e al Pentagono, i momenti di raccoglimento, i tintinnii di campanella all’ora degli schianti degli aerei e del crollo delle Torri.
Quel martedì mattina di 21 anni fa, aerei di linea dirottati si schiantarono contro il World Trade Center a Manhattan, innescando il crollo delle Torri, e contro un’ala del Pentagono ad Arlington, appena fuori Washington. La rivolta dei passeggeri a bordo portò un quarto aereo, che doveva forse colpire il Congresso o la Casa Bianca, a precipitare a Shanksville, in Pennsylvania.
Non è solo il calendario ad appannare la commemorazione. Ci sono almeno altri due fattori, che sono la polarizzazione dell’Unione e gli insuccessi nella guerra al terrorismo. L’America 2022 è molto meno coesa di quella 2001 ed è lontanissima dall’afflato solidale e patriottico che, nel bene e nel male – le guerre, le torture, le violazioni dei diritti fondamentali -, l’attacco suscitò. Oggi, “trumpiani” e progressisti provano reciproca diffidenza e non stanno volentieri l’uno accanto all’altro: rabbia e astio “domestici” prevalgono sulla percezione del nemico comune.
Tanto più che la guerra al terrorismo non ha portato i frutti sperati: un anno fa, la rotta di Kabul, con la consegna dell’Afghanistan ai talebani, diede plastica evidenza al fallimento di vent’anni d’inutile (e sanguinosa) presenza militare in quel Paese; e i tragici eventi delle ultime settimane nell’Iraq dilaniato da conflitti etnici e sociali, religiosi e politici, confermano – se mai ce ne fosse bisogno – che l’invasione non ha portato a Baghdad né democrazia né pace, né giustizia né benessere, oltre ad averne fatto la culla del nuovo terrorismo del sedicente Stato islamico.
Anche nei tribunali degli Stati Uniti, nonostante le forzature di Guantanamo e “renditions”, o forse pure a causa di esse, i processi a personaggi ritenuti le menti degli attacchi terroristici sono fermi. Khalid Shaikh Mohammed e altri quattro presunti elementi di al Qaida, detenuti a Guantanamo e rinviati a giudizio, nonostante basi legali dubbie, attendono gli sviluppi del processo, le cui udienze vengono di continuo rinviate o cancellate.
Se condannato, Mohammed rischia la pena di morte. James Connell, un avvocato dei suoi sodali, dice che le parti stanno ancora cercando di raggiungere un accordo preliminare in modo da evitare un processo per arrivare a sentenze minori ma ugualmente laboriose. Nel 2009, l’allora presidente Barack Obama annunciò che Mohammed sarebbe stato trasferito a New York per essere giudicato da un tribunale federale di Manhattan. Non se n’è fatto nulla, di fronte alla riluttanza della città e all’esorbitanza dei costi della sicurezza.
David Kelley, ex procuratore di New York, che ha co-presieduto l’indagine nazionale del Ministero della Giustizia sugli attacchi terroristici, considera i ritardi un fallimento nel perseguire i reati e “un’orribile tragedia aggiuntiva per le famiglie delle vittime’, che vedono scemare la speranza che un processo possa dare risposte a domande ancora irrisolte. Così, la giustizia, se si può chiamare giustizia, arriva da operazioni di commandos delle forze speciali – quella che il 2 maggio 2011 eliminò il capo di al Qaida Osama bin Laden – o dai droni della Cia – che il 31 luglio hanno ucciso a Kabul il suo successore Ayman al-Zawahiri.