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Telefonata o messaggio? Le scelte della nuova “generazione silenziosa”

La “fine delle telefonate”, atteggiamento molto diffuso presso le giovani generazioni, rappresenta un ulteriore colpo alla socialità

A volte, per specificare l’anomala tendenza di rifiuto e fastidio all’azione del telefonare o rispondere, si utilizza, impropriamente, la locuzione “generazione silenziosa”. In realtà, la “generazione silenziosa” originaria è quella dei nati tra il 1928 e il 1945. Fu definita in tal modo per altri motivi: la paura di esprimersi in pubblico, di affermare le proprie opinioni e subirne le conseguenze, salvo, poi, avviare la contestazione giovanile del ‘68.

La classificazione delle persone in “generazioni”, peraltro, è molto controversa: si suole suddividere, secondo caratteristiche storiche, abitudini, tendenze ma si rischia di confinare le personalità, di ragionare per luoghi comuni e di sottovalutare la trasversalità delle opinioni e delle azioni.

I sondaggi, effettuati per scoprire i gusti di una determinata fascia di età, sono più che altro dei sistemi utilizzati a livello commerciale, per capire quali siano le scelte del momento e cavalcarle, fissando steccati e uniformando le propensioni.

Il paradosso è sottile: lo smartphone è divenuto, per la quasi totalità della popolazione, una sorta di appendice del corpo, un oggetto da utilizzare in continuazione per vari motivi; però, per una determinata fascia di età, dedita a scrollare, a giocare, ad ascoltar musica, a chattare, vi è un’indolenza al vero e originario scopo di quello strano oggetto a forma rettangolare: la telefonata.

La BBC il 26 agosto scorso ricordava “da un recente sondaggio è emerso che un quarto delle persone di età compresa tra 18 e 34 anni non risponde mai al telefono”.

Uswitch (“uno dei principali siti web di comparazione del Regno Unito per quanto riguarda i servizi di cambio casa”), il 30 aprile scorso riportava un numero elevato di dati e statistiche. Fra questi, si legge “essere cresciuti nell’era dei social media ha portato le giovani generazioni ad abbandonare le chiamate vocali per passare ad altri modi di comunicare con amici e familiari, scegliendo sempre più di comunicare tramite social media (48%) e messaggi vocali (37%) rispetto alle tradizionali telefonate”. Per quanto riguarda le motivazioni, la prima che cita è “la preoccupazione per le chiamate spam o truffa (63%). […] La seconda ragione più comune è ‘voler scoprire prima chi è la persona (50%)’. […] Anche gli stili di vita frenetici hanno ridotto le telefonate, con ‘essere occupati’ (24%) e non voler essere interrotti (23%) come terza e quarta ragione”.

La notizia è di pochi mesi fa, occorre capire ora, fase in cui è stata metabolizzata, il motivo di questo atteggiamento.

Si tratta di una situazione singolare ma “motivata”: il giovane non desidera la comunicazione diretta, quella in cui, a bruciapelo, è più esposto, in cui deve prestare ben attenzione alle parole, al tono e ai tempi. La comunicazione attraverso i messaggi è più comoda: permette di scegliere i momenti, di valutare meglio i termini.

L’avversione alla telefonata si spiega anche con il rifiuto del “sincrono”, del vincolo di tempo. Il desiderio della massima libertà, sponsorizzata dai media, dai social, pretende di non essere “stressati” dal tempo, dai genitori che chiedono notizie. L’anarchia, la libertà sfrenata si misura anche da questo.

Alla base del fenomeno vi è quel DNA che identifica la moderna società occidentale (e ammicca anche all’altra): la velocità. A tale paradigma si riferiscono, in una natura riduttiva, quasi tutti gli aspetti della propria vita, delle relazioni interpersonali, parametrando valori e attività.

Il giovane, in particolare, vive nella fretta, nella comunicazione urgente, continua e frenetica; preferisce, quindi, lanciare e ricevere messaggi anziché “perdere” tempo in telefonate. Si tratta, in effetti, di un’esasperazione dell’atteggiamento tenuto spesso dagli adulti. Un esempio classico in questo senso sono i periodi delle festività, in cui si preferisce “sistemare” la questione degli auguri ad amici e parenti, con messaggi, scritti o vocali, di breve durata, anziché ricorrere a numerose e lunghe telefonate.

La comunicazione attuale, risente, spesso, di vuoti e silenzi difficili da colmare; per questo si predilige un “dialogo” più freddo, immediato e, soprattutto, pianificato, come quello di un messaggio.

La pianificazione del messaggio è fondamentale, in particolare per il contenuto: non si prova scrupolo per testi scritti in un italiano approssimativo bensì per il concetto che si vuole trasmettere e sul quale non si intende sbagliare né essere fraintesi.

Una spiegazione a tale particolarità giovanile è stata individuata nell’ansia di ricevere telefonate improvvise e sgradite, (in particolare di stampo pubblicitario) e di non saper fornire una risposta adeguata al momento. Lo stress si evidenzia anche nella paura di ricevere comunicazioni gravi. Il messaggio, fornisce, in quest’ultimo caso, un tempo più ampio per elaborare ma, razionalmente, non cambia, purtroppo, la sostanza di una notizia dolorosa.

Altra preoccupazione è l’invadenza delle chiamate, come minaccia alla privacy. Quest’ultima, oltretutto, si considera compromessa dall’esser costretti a parlare a voce alta. Le condotte sul web, sui social, l’uso di video e fotografie, le ricerche e gli acquisti on line, tuttavia, costituiscono altrettanto rischio.

La spiegazione “moda” non va sottovalutata: la telefonata è considerata antiquata e superata. Un giovane che pure apprezza tale mezzo si trova a non ricevere risposta dai coetanei ed è, quindi, costretto a ripiegare sul mezzo digitale.

In un discorso del primo giugno 1980, San Giovanni Paolo II ricordava ai giovani francesi che “il Vangelo, tutto, è un dialogo con l’uomo, con le diverse generazioni, con le nazioni, con le diverse tradizioni, ma è sempre, ininterrottamente un dialogo con l’uomo, con ogni uomo, uno unico, assolutamente singolare. […] Cristo è il Verbo, la Parola di un dialogo incessante. Egli è il dialogo, il dialogo con ogni uomo, sebbene alcuni non lo facciano, o che non sappiano come portarlo avanti, e ce ne sono di quelli che rifiutano esplicitamente questo dialogo. Essi si allontanano eppure può essere che questo dialogo sia in corso anche con loro. Sono convinto che è proprio così. Più di una volta questo dialogo si ‘svela’ in modo inatteso e sorprendente”.

Il concetto errato e inquietante è l’associazione molto diffusa tra le giovani leve, fra telefonata e pessima notizia. L’equazione, quindi, si traduce in una totale impossibilità a credere in una telefonata di altra natura, di semplice conversazione o foriera di buone notizie. Si tratta di un’enorme sfiducia nel prossimo che sfocia nel trionfo della diffidenza.

Sono, queste, le basi per un’ulteriore lacerazione sociale: non solo il dialogo  diretto e “fisico” tende a scomparire ma anche quello mediato lascia paura, fastidio e distacco.

A esser negative, quindi, non sono le notizie temute bensì le basi attuali della realtà sociale, in cui si preferisce non comunicare con il prossimo pensando di evitare, quasi superstiziosamente, la realtà.

Don Domenico Storri, specializzato in psicologia e psicoterapia, e Gemma Guadi, magistrato, sono gli autori del volume “Era solo un gioco” (sottotitolo “Giovani e giovanissimi tra trasgressione, legge e educazione”), pubblicato da “San Paolo Edizioni” il 25 gennaio del 2023. Parte dell’estratto recita: “Il mondo dei giovani è spesso in balia delle proprie pulsioni, agendo frequentemente in modo istintivo e dannoso per se stesso e per la società. Ne derivano situazioni che hanno importanti risvolti psicologici e morali, ma anche conseguenze legali, spesso gravi. Nascondersi dietro la scusa: ‘Era solo un gioco’ non protegge un giovane dall’essere condannato, a esempio, per maltrattamenti o lesioni personali, così come affermare: ‘Io guardavo e basta’ dall’accusa, a esempio, di concorso nei reati sessuali”.

Non si tratta, in conclusione, di un silenzio “pieno”, di raccoglimento, meditazione e progettazione ma, spesso, a rischio di “vuoto”, perso, edonistico e asociale.

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