La visibilità a tutti i costi rappresenta un’aspirazione molto diffusa che, nell’era del web e dei social, punta alla vetrina nazionale (e internazionale) attraverso condivisioni e like, per influenzare morale e costumi.
Il web, spesso, produce “contenuti vuoti” che, in nome del puro raggiungimento del protagonismo, non si basano su credibilità. Tale contraddizione anziché essere stroncata in modo naturale (poiché senza appigli e valori), risulta oltretutto potenziata, senza cura per la fondatezza della notizia.
La società attuale, infatti, galleggia fra un complottismo severo, anche dinanzi all’evidenza, e un’ingenuità acritica, sensoriale, robotica.
Le conseguenze, spesso gravi e negative (bullismo, violenza, ignoranza, superficialità, divisione), sono ben note ma, al momento, ancora ardue da estirpare.
Un tempo erano le minoranze, nel bene o nel male, a cercare una visibilità mediatica, ora si aggiungono casi isolati (che utilizzano le nuove frontiere di Internet e dei social) disposti a tutto, pur di ottenere fama. Tale assoluta disponibilità sconfina nel perdere anche la propria dignità pur di raggiungere l’agognato obiettivo.
Occorre responsabilità, anche da parte del singolo utente, nel non concedere troppa enfasi e spazio a notizie senza senso, introdotte solo per ricevere notorietà. Molte hanno di mira il matrimonio. Fra queste, a esempio, un anonimo navigatore del web che dichiara di sposarsi con se stesso, oppure un altro con un albero, con un animale, con il proprio piumone/coperta, con una mucca, con una bambola, anche gonfiabile. A tali “esche” non bisogna abboccare. Si tratta, infatti, di notizie assurde e montate ad arte da alcuni sconosciuti per ottenere visibilità nel web, quella che non avrebbero ottenuto anni fa, quando sarebbero stati ignorati o derisi.
Papa Francesco, nel Messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale della Gioventù, l’11 febbraio 2018, affermò “E voi giovani, quali paure avete? Che cosa vi preoccupa più nel profondo? Una paura ‘di sottofondo’ che esiste in molti di voi è quella di non essere amati, benvoluti, di non essere accettati per quello che siete. Oggi, sono tanti i giovani che hanno la sensazione di dover essere diversi da ciò che sono in realtà, nel tentativo di adeguarsi a standard spesso artificiosi e irraggiungibili. Fanno continui ‘fotoritocchi’ delle proprie immagini, nascondendosi dietro a maschere e false identità, fin quasi a diventare loro stessi un ‘fake’. C’è in molti l’ossessione di ricevere il maggior numero possibile di ‘mi piace’. E da questo senso di inadeguatezza sorgono tante paure e incertezze. Altri temono di non riuscire a trovare una sicurezza affettiva e rimanere soli”.
La professoressa Gabriella Taddeo è l’autrice del volume “Social. L’industria delle relazioni”, pubblicato da “Einaudi” il 27 febbraio 2024. Parte dell’estratto recita “I social negli anni sono diventati sempre più mezzi di informazione, di intrattenimento e di crescita personale. Allo stesso tempo, con pari o maggiore intensità, li interpretiamo come zone franche, in cui allentare la morsa sociale per lasciarci andare al divertimento infantile, al narcisismo, all’esaltazione tribale o alla semplice apatia. Essi sono, oggi, una vera e propria ‘industria delle relazioni’. In questa industria, i mezzi di produzione appartengono a pochi, ultrapotenti monopolisti mondiali, che concepiscono e dettano le regole del gioco. Con la conseguenza, spesso, di farci sentire succubi, se non vittime, di dinamiche costruite per noi e allo stesso tempo senza di noi”.
Il 21 febbraio scorso è stata pubblicata una ricerca realizzata da Ipsos, Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e Parole O_Stili. L’Istituto Toniolo, al link https://www.istitutotoniolo.it/giovani-e-fake-news-il-51-utilizza-whatsapp-instagram-e-tiktok-come-fonti-di-informazione/, offre una serie notevole di dati della ricerca. Fra questi, si legge “Nell’indagare la relazione tra studenti di medie e superiori e le fake news, la ricerca ha rilevato che, in media, il 31% dei giovani utenti mette like alle fake news presentate, mentre una percentuale molto minore pari al 7% le condivide, suggerendo una netta distinzione tra engagement passivo e attivo. Delle 10 fake news proposte, il 73% degli studenti non ne condivide nessuna, mentre il 5% è responsabile di quattro o più condivisioni. Per i like, la distribuzione è più uniforme: il 35% non ha mai messo like, mentre il 34% ne ha messi quattro o più. Sull’approccio alle fake news emergono, inoltre, alcune differenze significative sia relativamente al genere, le ragazze condividono il 61% in più di notizie non verificate, sia geografiche, con gli adolescenti delle regioni del sud del Paese che, mostrano tassi più elevati sia di condivisioni sia di like rispetto ai giovani del centro e nord Italia. Tra i fattori che influenzano maggiormente la possibilità di contribuire al diffondersi delle fake news, il principale è il tempo che si trascorre sui social media: infatti, chi usa i social 3-4 ore al giorno condivide 5,5 volte più fake news e mette 12 volte più like rispetto a chi invece li usa meno di un’ora”.
L’aspirante protagonista deve selezionare gli argomenti che possono catturare la curiosità del pubblico della Rete.
La cultura non è fra questi: implica uno sforzo, può divenire noioso e, al massimo, interessare una nicchia di fruitori. Tutti gli argomenti che richiedono impegno e attenzioni, peraltro per parecchi minuti, sono condannati all’isolamento.
I post devono essere leggeri e superficiali, immediati, arrivando alla pancia delle persone senza codificazioni e interpretazioni di rilievo.
In una discussione politica, interna o internazionale, non conviene snocciolare la cronistoria o gli eventi: si arriva dritti al dunque, con una conclusione a effetto, a esempio “è tutta colpa di…”.
La massa dei navigatori predilige emozioni classiche, risate o, al contrario, argomenti commoventi, purché percepibili, sensorialmente, in breve tempo.
Messaggi, immagini, video di carattere umoristico o che evocano esplicitamente la bellezza femminile o maschile, sono tra i più seguiti.
I sondaggi hanno molto seguito purché molto diretti e volti a scatenare l’opinione, a schierarsi radicalmente, a delimitare il proprio recinto, il proprio autorevolissimo parere.
Uno spazio a parte, considerevole, è riservato alle notizie “bomba”, quelle ritenute più ridicole, sensazionali, strane, impossibili o che urtano la (residua e presunta) morale. In tal caso, non è necessario approfondire la validità e la fondatezza dell’informazione: si assimila e si condivide il più possibile, cavalcandone la notorietà, senza filtro.
L’esigenza smodata di visibilità stravolge l’onestà intellettuale, piega la persona a non essere autentica, a veicolare messaggi capziosi, a plagiare, a catturare l’altrui benevolenza, a rendere tendenza sociale una (eventuale) personale opinione.
L’obiettivo è quello, subdolo, di cambiare gli atteggiamenti e di lavorare, in un’ottica di “finestra di Overton”, attraverso una persuasione graduale, lenta ma crescente, fino ad accettare alcuni presunti valori. Creare tendenza e rendere accettabile ciò che, in realtà, non lo è.
Molte volte si introduce la notizia “inopportuna” cercando di alleviarne il peso, come frutto di goliardia, di eccentricità positiva. Raramente (solo nei casi gravi) la notizia disdicevole riceve un commento e una risposta di condanna. Il limite dell’annosa questione dello spazio mediatico è, ora, più sottile: la pubblicazione di notizie e comportamenti sconcertanti può avere, nell’ottica contemporanea dei social, un’accettazione controversa ma progressiva nel tempo.
La realtà (e la storia), del resto, insegna come la notizia cattiva o falsa attiri più attenzione di quella buona e vera.
L’insicurezza, la mancanza di identità e personalità si scambiano con l’esigenza di essere “qualcuno”, attraverso un riconoscimento mediatico. La tribuna, un tempo, era riservata al circolo sotto casa o al bar dello sport e lì rimaneva, anche nelle conseguenze e negli effetti; ora, con i social, travalica confini e arriva ovunque, rischiando di lasciare esiti gravi.
Il limite è elastico poiché lo scandalo è ritenuto un elemento essenziale e quasi fisiologico della società, soprattutto se funzionale a trasmettere messaggi.
Un caso singolo non può essere esteso all’intera popolazione attraverso un processo di generalizzazione, peraltro non fondata da evidenza scientifica.
Si tratta di una visibilità funzionale che, oltre a veicolare l’immagine personale, tende a instaurare una letteratura dominante, imposta, unica, da accettare senza alternativa.
La censura mediatica è un’arma utilizzata a scopo propagandistico: offusca, silenzia principi per veicolare, attraverso filtri volutamente più flessibili, un anticonformismo apparentemente innocuo, ma con sostanziale “verità”, da dosare e somministrare gradualmente.
La pazzia (finta o vera) diventa funzionale ma, al di là dello stupore, è saggio non offrire risalto a notizie idiote: un pessimo esempio, peraltro, per bambini e ragazzi che leggono o ascoltano “informazioni” così fuorvianti. Occorre impedire (rinunciando a inviare, a esempio, meme e link di tale bassezza), che possa divenire virale ogni messaggio negativo, violento e anche subdolamente stupido ma in grado di trasmettere, scavando passo passo, contenuti distorti sulla sessualità, sulla personalità e sui valori. Questi ultimi non galleggiano su instabile scalpore e tendenza: godono di assolutezza.