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Partire per un ideale e vivere tre mesi in Palestina: la testimonianza

Lucas Calle ha trascorso 3 mesi sulle colline a sud di Hebron, accompagnando i pastori palestinesi. Faceva parte di un gruppo che garantiva una presenza internazionale per essere un deterrente alla violenza. Quasi sempre

Foto di Lucas Calle

Volevo ricominciare da capo. Per questo mi sono preso del tempo. Partire per un ideale, sempre lo stesso, quello tanto criticato di cambiare il mondo. Logico, io da solo non riesco a cambiare neanche me stesso, figuriamoci il mondo, ma ci sono persone che ancora credono in questa cosa e magari, insieme, ci riusciremo. Volevo andare in una zona di conflitto e sono partito per la Palestina insieme ad altre persone con passaporto internazionale. Arrivare in Palestina non è stato semplice, perché sei costretto a passare da Israele. Se ti va bene e riesci ad entrare, inizi a capire tante cose. Capisci che esiste ancora l’orrore nel mondo. Una follia che si collettivizza, creando mostri e nemici immaginari. Un’altra cosa che viene a galla, osservando il conflitto, è che l’Occidente ha le mani piene di sangue. Non sempre ci viene raccontata la verità dai grandi media. Così provo a raccontare ciò che ho visto attraverso le foto scattate in quei 3 mesi in Palestina.

Un colono israeliano armato cerca di salire la cima di una collina per avere una visuale di tiro migliore.
Foto di Lucas Calle

Pastori e coloni

«Lo sai che gli israeliani che vivevano qua prima del ’48 sono stati cacciati o uccisi? Loro erano amici dei Palestinesi», mi sussurra Gazem. Lui avrà forse meno di cinquant’anni, anche se il suo volto ne dimostra molti di più. Molto spesso il suo sorriso è più forte della sofferenza che lo circonda. Gazem porta le sue capre a pascolare sulle colline a sud di Hebron ormai da diverse generazioni e questi sassi li conosce tutti.

azem e il suo gregge si prendono una pausa dopo una giornata al pascolo. La pastorizia è ancora molto forte in Palestina e non è solo una fonte di sussistenza, ma rappresenta l’identità di un popolo. Foto di Lucas Calle

«Prima potevamo difenderci solo con i sassi, e qui, come hai visto, ce ne sono molti. Ora se un militare o poliziotto israeliano ti vede con un sasso in mano, ha diritto ad arrestarti, anche se non stai facendo nulla. Non vogliono che ci difendiamo, per questo sono nate altre strategie, tra queste quella della non violenza. Non sappiamo se questa strategia riuscirà a liberarci dai coloni, ma sappiamo che se dovessimo cominciare una guerra armata il mondo ci annienterebbe». Sentire Gazem, che parla mentre mi prepara il tè nel bel mezzo del deserto, è una sensazione ambivalente, sento la pace del suo sguardo fermo, ma mi pervade un senso di angoscia. Rivivo in un attimo quello che è successo giorni prima: una donna anziana ha ricevuto una bastonata da un gruppo di coloni che le ha fratturato il cranio. L’attacco era stato pianificato subito dopo che un pastore palestinese aveva provato a cacciare, senza violenza, alcuni coloni israeliani dalle proprie terre. Questi, per vendicarsi dell’affronto, sono entrati in casa del pastore e, mascherati e muniti di mazze, hanno aggredito diverse persone. Noi, che abbiamo passaporti internazionali, siamo riusciti a filmare tutto ed è uscito un articolo di denuncia su alcuni giornali in Italia e all’estero.

«Non devi piangere»

Padre e figlio assistono all’arrivo della ruspa che demolirà le loro case. Quello delle demolizioni fa parte della politica di occupazione che Israele compie ai danni dei palestinesi.
Foto di Lucas Calle

Ma questo non basta a cambiare la realtà. Quotidianamente gruppi di coloni israeliani armati scendono dalle colonie per invadere le terre private dei Palestinesi. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, con l’appoggio del governo d’Israele, i coloni hanno iniziato a vestirsi come militari: la situazione è degenerata e la loro violenza è sempre più efferata e impunita. «Noi sono decenni che resistiamo, la nostra stessa esistenza è resistenza… questo anche è Sumud» mi spiega Gazem. Il Sumud è una sorta di filosofia nata in queste terre. Il termine potrebbe essere tradotto come «resilienza», ma, è qualcosa di molto più profondo, è uno stato dell’essere, una resistenza non violenta alle ingiustizie. «Non devi mai far vedere a un colono che sei disperato, non devi piangere, non possiamo piangere davanti a loro e neanche davanti ai nostri figli». Ma forse qualcosa sta cambiando: le nuove generazioni sono diverse da quelle vecchie e molti ragazzi hanno deciso di non costruire una famiglia e di non avere figli per non farli vivere questo inferno. La vecchia generazione invece vedeva nei figli un continuum alla lotta di liberazione. Alcuni pensano che tutta questa morte e distruzione sia l’inizio di quella che sarà un giorno la liberazione finale. Io, al contrario, non riesco a vedere la luce in fondo al tunnel.

Non odiare, non uccidere

«Bisognerebbe non odiarli» mi dice Gazem accendendosi una sigaretta. Il suo volto nasconde un sorriso e so che quello che dice potrebbe essere l’unico modo per non aumentare l’odio che ormai ha impregnato ogni cosa in queste terre. Purtroppo però non è facile non odiare chi ti violenta ogni giorno, è un lavoro costante che comporta una messa in discussione quotidiana. Meno di una settimana fa la casa di Gazem e della sua famiglia è stata demolita dalle forze di occupazione e anche questo fa parte del progetto coloniale sionista. Molto spesso vedevamo soldati israeliani con lo stemma della Grande Israele, quella che va dal Mediterraneo fino a quasi toccare l’Egitto. I coloni stanno già entrando a Gaza e stanno occupando le case distrutte nel nord della Striscia. Al momento stanno bombardando, uccidendo civili indifesi. E l’Italia è il terzo Paese per i finanziamenti, a livello militare, delle politiche espansionistiche di Israele. Negli Stati Uniti, l’élite sionista finanzia tutte le campagne elettorali; purtroppo anche una grande percentuale di prodotti che compriamo per uso alimentare finanzia l’occupazione nei territori palestinesi.

Quasi ogni famiglia in Palestina ha una colombaia. Queste colombe stanno rientrando a casa: il sogno di ogni palestinese.
Foto di Lucas Calle

Alzo gli occhi e vedo uno stormo di colombe che rientra in volo nella propria colombaia. Quasi ogni famiglia ha una colombaia: una volta questi uccelli venivano usati per scambiarsi messaggi, ora come cibo – anche se non fa parte dei loro piatti tradizionali – o solo per compagnia. Quelle colombe stanno rientrando a casa: il sogno di ogni Palestinese.

L’articolo è stato pubblicato su Semprenews.it

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