L’“Effetto Macbeth” è la locuzione contemporanea, diffusa da ricercatori internazionali che, dinanzi alla percezione della propria “sporcizia” morale, prevede la necessità di un lavaggio purificatore, per ridurne le conseguenze e il giudizio altrui. Riprende le vicende di Lady Macbeth (narrate nel “Macbeth”, tragedia di Shakespeare) che, complice in un omicidio, non riesce a eliminare l’immagine e l’odore di una macchia di sangue che la tormenta nella testa. Il senso di colpa induce al bisogno di lavarsi più frequentemente, in un atto di purificazione che coinvolge principalmente la parte del corpo ritenuta responsabile del danno (a esempio, per Lady Macbeth, le mani, quelle che ha armato per l’uccisione di Duncan re di Scozia).
Le contaminazioni possono essere di due tipi: quella fisica e mentale. La prima riguarda il rischio di infettare il corpo toccando qualcosa o qualcuno. La seconda riguarda la paura di pregiudicare la propria coscienza, l’etica, la colpa; ne è espressione l’Effetto Macbeth. Si tratta, dunque, di una forma di contaminazione mentale, particolarmente avvertita dai soggetti con “disturbo ossessivo compulsivo”, che avviene in seguito a comportamenti non deontologici, a pensieri blasfemi, immorali, perversi. Non vi è contatto con sostanze infette o nocive ma implica, ugualmente, il ricorso a forme di purificazione.
L’azione considerata immorale conduce, generalmente, a una sensazione di sporcizia interiore ed esteriore, da purificare attraverso un lavaggio fisico. Nei soggetti affetti da disturbo ossessivo compulsivo, la pulizia diviene un’ossessione e comporta azioni continue e ripetute di lavaggio. A ciò si accompagna il terrore di essere contaminati dal prossimo, dall’immoralità e sporcizia altrui. La sporcizia morale genera pratiche ossessive di pulizia che condizionano e limitano, anche a livello sociale, la vita quotidiana di chi ne soffre. La pulizia del corpo, quindi, oltre a garantire igiene, sicurezza e benessere, è strettamente collegata alla purezza morale e spirituale.
San Giovanni Paolo II, durante l’Udienza Generale dell’11 febbraio 1981, affermò “La purezza, intesa come ‘capacità’, è appunto espressione e frutto della vita ‘secondo lo Spirito’ nel pieno significato dell’espressione, cioè come nuova capacità dell’essere umano, in cui porta frutto il dono dello Spirito Santo”.
Francesca Mancini, Paola Spera, Alice Turri, psicologhe e psicoterapeute, sono le autrici del volume “Io non (me ne) lavo le mani!” (sottotitolo “Vivere con una persona con il Disturbo Ossessivo Compulsivo”, pubblicato da “Franco Angeli” nel settembre 2023. Parte dell’estratto recita “Si stima che solo in Italia ci sia un milione di persone con questo disturbo, quindi un milione di famiglie vive quotidianamente questo dilemma, in tutta la sua tragicità. I familiari si sentono obbligati a lavarsi le mani (ma questa è solo una delle tantissime compulsioni a cui sono costretti a partecipare) perché pensano che questo sia l’unico modo per aiutare il proprio caro. Niente di più sbagliato. Partecipare alle compulsioni non solo non combatte il disturbo, ma anzi lo alimenta”.
Il 25 marzo scorso, l’Ospedale Maria Luigia di Monticelli Terme (PR), precisava, al link https://www.ospedalemarialuigia.it/doc-disturbi-correlati/disturbo-ossessivo-compulsivo/#:~:text=Il%20disturbo%20ossessivo%20compulsivo%20colpisce,contare%20e%20le%20compulsioni%20mentali “Anche se le compulsioni forniscono un temporaneo sollievo dall’ansia causata dalle ossessioni, spesso si rivelano controproducenti, incrementando l’ansia a lungo termine e rafforzando il ciclo ossessivo-compulsivo. Infatti il disturbo ossessivo compulsivo risulta essere una delle patologie psichiatriche più invalidanti in quanto riduce notevolmente la qualità di vita di chi ne è affetto. Il disturbo ossessivo compulsivo colpisce, nell’arco della vita, circa il 2-3% della popolazione. In genere il 90% di chi soffre come rituali compulsivi veri e propri anche il contare e le compulsioni mentali”.
In un’indagine del 2006, Chenbo Zhong e Katie Liljenquist, professori all’università di Toronto, erano giunti all’affermazione per cui la minaccia alla propria purezza morale induce il bisogno di lavarsi. Tale lavaggio allevia le conseguenze dei comportamenti immorali e riduce la minaccia alla propria immagine morale. La compulsione non deve considerarsi soltanto come un comportamento meccanico e fine a se stesso ma occorre valutarne anche l’aspetto intenzionale, finalizzato alla risoluzione. Tuttavia, per liberarsi dai peccati non è sufficiente un lavaggio fisico bensì un pentimento profondo, accompagnato dal sacramento della Riconciliazione, in cui è necessaria, innanzitutto, la contritio cordis (la contrizione del cuore). Occorre ricordare, sulla scorta dell’esempio di Pilato, come un lavaggio (di mani e non solo) tenda a deresponsabilizzare ma non a pulire la coscienza.
Pensare di poter mondare la propria interiorità, definitivamente, attraverso un “colpo di spugna”, un tocco di acqua e sapone, è illusorio. “Evitamento”, termine della letteratura clinica con cui il paziente cerca di evitare il contatto, aumenta, di fatto e idealmente, la distanza sociale. Si tratta, dunque, di un disturbo che, oltre a creare danni personali di tipo mentale e fisico, si accompagna a stravolgimenti familiari e lavorativi nonché all’impossibilità di mantenere relazioni sociali. Soffermandosi, dunque, ai risvolti sociali del disturbo, è necessario rilevare come la categoria di carattere “washer” (lavaggio) sia davvero invalidante e produca ulteriore diffidenza e paura nei confronti del prossimo. Questo, infatti, non è visto come una possibile ancora di salvezza e di condivisione bensì come l’untore, colui che attenta alla vita e alla moralità altrui.
Il prossimo stesso, fatica a comprendere i sistematici, lunghi e infondati comportamenti di pulizia, per cui si creano ulteriori barriere dialettiche, incomunicabilità, sino al dileggio. Ne sanno qualcosa i bambini che soffrono di questo disturbo, costretti, se vi riescono, a esercitare le loro compulsioni prima o dopo l’orario scolastico, per non essere visti e ridicolizzati, se non bullizzati. È proprio insieme all’“altro”, invece, che è possibile definire i confini dell’ansia, di equilibrare il peso morale, soprattutto per chi lo vive in maniera patologica e lo associa a pratiche ripetute di lavaggio. Il rischio è quello di un esame di coscienza squilibrato e non obiettivo, in cui, in un caso, la “purificazione” potrebbe condurre a eliminare le colpe personali per meglio ergersi a giudici di quelle altrui; al contrario, nell’altra fattispecie, si valuterebbe con estrema e infondata severità il proprio comportamento, considerandolo sempre più grave di quello altrui.
Il 29 aprile 2013, in Santa Marta, Papa Francesco aveva sbrogliato la questione “Tante volte pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti, ma Gesù nel confessionale non è una tintoria: è un incontro con Gesù”.
Il Pontefice consegnava la sintesi fra peccato, senso di colpa, sporcizia morale, lavaggio purificatore, durante la Meditazione mattutina, “La grazia della vergogna” (sempre in Santa Marta), del 21 marzo 2017, affermando “Bisogna chiedere a Dio ‘la grazia della vergogna’, perché è una grande grazia vergognarsi dei propri peccati e così ricevere il perdono e la generosità di darlo agli altri. […] La risposta la offre la Chiesa, che ‘oggi ci fa entrare in questo mistero del perdono, che è la grande opera di misericordia di Dio’. […] Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato. Potessimo trovare misericordia, tale sia oggi il cuore contrito, lo spirito umiliato e il nostro sacrificio davanti a te. Signore, non coprirci di vergogna, fa’ con noi secondo la tua clemenza, la tua grande misericordia”.