Il lavoro è una delle dimensioni che caratterizza la nostra vita. Occupa le nostre giornate, coinvolge il nostro corpo e la nostra mente e influisce sul nostro stile di vita e, di riflesso, sulle nostre relazioni, specie quelle familiari. È spesso fonte di preoccupazione, di stress e ansia, di stanchezza e di nervosismo, di frizioni e contrasti. Ma può essere anche fonte di gratificazione, di realizzazione personale e di crescita professionale e umana. Il lavoro forma e deforma, è il luogo dei successi ma anche dei fallimenti, lì si cresce o si è impediti di crescere.
La pervasività del lavoro nella vita quotidiana richiede necessariamente una riflessione e i tempi attuali, in cui siamo sempre più coinvolti e immersi in attività spesso frenetiche e logoranti, rendono urgente questa riflessione.
Sono molti coloro che, dopo tanti anni di lavoro, guardano agli anni passati con nostalgia o con rimpianti e, al momento della pensione in cui si cessa l’attività lavorativa, ci si accorge di aver sacrificato tanto al lavoro, in termini di tempo, di energia e di relazioni…
San Josemaria Escriba de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, sviluppò una riflessione molto pregnante sulla spiritualità del lavoro. Vedeva la professione come una occasione di crescita personale, come servizio alla società ma soprattutto come una seria opportunità di santificazione di sé, dell’ambiente di lavoro e dell’intera società. Una spiritualità del lavoro non può che affondare le sue radici nella Sacra Scrittura.
Antico Testamento: “Il sudore della fronte”
È vero che l’attuale contesto sociale ed economico contribuisce notevolmente a fare del lavoro l’asse attorno al quale gira la nostra quotidianità. Ma il lavoro non è una invenzione del capitalismo del XX secolo. Fin dalle prime pagine della Genesi si parla di lavoro. Dio lavora nell’opera della creazione al punto da decidere di “riposare” al settimo giorno, dopo aver portato a termine la sua opera.
Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden sono chiamati a lavorare per coltivare e soggiogare la terra, proseguendo così, col loro lavoro, l’opera della Creazione. Così Caino e Abele, Noè, Mosè, i profeti e tutti i personaggi che incontriamo nella storia della salvezza hanno un’occupazione che svolgono secondo le proprie capacità e disposizioni personali.
Il lavoro fa parte della natura dell’uomo e i libri sapienziali elogiano l’operosità dell’uomo e della donna mentre condannano l’ozio e il vivere sfaccendato: «Chi è già indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore» (Prov 18,9). La Bibbia elogia il lavoro manuale ben fatto e considera il lavoro un dono di Dio che benedice e rende fecondo lo sforzo umano: «che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio» (Qo 3,13). Inoltre ne sottolinea la forte valenza sociale: il lavoro contribuisce alla formazione della società, al benessere della città e alla prosperità della famiglia e della comunità.
Tuttavia a causa del peccato, nella natura e nella condizione ferita dall’allontanamento da Dio, subentrano fatica, divisioni, avidità e volontà di dominio. I profeti denunciano le ingiustizie sul lavoro e Dio stesso ascolta il grido del popolo costretto a lavorare come schiavo per intervenire, liberare e salvare.
La novità di Gesù di Nazareth: Dio provvede
Nel Nuovo Testamento Cristo non biasima né sminuisce la dignità del lavoro ma annuncia una novità: l’abbandono totale al Padre che provvede, veste e alimenta; in altre parole, la priorità di Dio, che va messo al primo posto. Oltre agli affetti familiari, gli apostoli lasciano il lavoro, abbandonano la professione per seguire Gesù e annunciare il Regno; così Maria «ha scelto la parte migliore» (Lc 10,41) dedicandosi alla contemplazione, mentre Marta resta affaccendata in cucina. Con la parabola del ricco stolto (Lc 12,13-21) Gesù mette in guardia dal pericolo dell’avidità invitando i discepoli (preoccupati per l’eredità) a non affannarsi per le ricchezze ma di arricchirsi “davanti a Dio”.
È nel Sermone della Montagna (Mt 7, 19-34) che Gesù invita a un cambiamento radicale di prospettiva: “Non accumulate tesori sulla terra” e “non affannatevi per il cibo e per il vestito”. Perché di queste cose si preoccupano i pagani. La fede nel Dio di Gesù Cristo è dunque incompatibile con l’idolatria che si concretizza nell’affanno per le ricchezze: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 6, 24). Pur avendo imparato l’importanza del lavoro dal padre Giuseppe e citato più volte il lavoro nelle sue parabole, Gesù invita a ridimensionare il lavoro per mettere al primo posto Dio, Padre buono che provvede per i suoi figli.
L’esempio dei santi
L’esempio di San Francesco d’Assisi, così come di molti altri santi che hanno abbandonato il mondo per dedicarsi completamente a Dio, non è dunque una fuga dal lavoro ma una scelta di vita che ancora oggi è sposata da tanti missionari, consacrati o laici (anche intere famiglie) che lasciano ogni sicurezza e stabilità economica per annunciare il Vangelo.
Una particolare via è quella tracciata da san Benedetto da Norcia che coniò l’ormai noto motto Ora et Labora, in cui si sperimenta il pieno equilibrio tra il lavoro (manuale e intellettuale) e la contemplazione.
Molti santi si sono invece santificati nel lavoro, basti pensare a san Giuseppe, patrono dei lavoratori, a Isidoro di Madrid, agricoltore, a San Tommaso, Moro giudice e politico, a san Giuseppe Moscati, medico, e a molti altri che pur vivendo nel mondo e guadagnando il pane “col sudore della fronte”, hanno messo Dio al primo posto. Così molti cristiani, nel silenzio e nel nascondimento, cercano di mettere in pratica il Vangelo rimanendo nel mondo, scegliendo di lavorare per vivere e non di vivere per lavorare.