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Perché il sacerdote è un dono per gli altri

Quando si pensa a chi sia e, soprattutto, cosa fa un sacerdote non si ha mai una risposta univoca.

Nel documento redatto dalla Commissione Teologica Internazionale nel 1970, e denominato appunto “Il sacerdozio cattolico” si afferma, al n° 4 che: “Il cristiano chiamato al ministero sacerdotale non riceve, dunque, con l’ordinazione una funzione solamente esteriore, bensì una partecipazione radicale al sacerdozio di Cristo, in virtù della quale rappresenta Cristo alla testa della comunità e come di fronte ad essa. Il ministero è dunque un modo specifico di vivere il servizio cristiano nella chiesa. Questa specificità appare più chiara nel compito suo proprio di presiedere l’Eucarestia, presidenza necessaria alla piena realtà del culto cristiano. L’annuncio della Parola e l’ufficio pastorale s’orientano verso l’Eucarestia, che consacra tutta l’esistenza cristiana nel mondo”.

Il ministero è un modo specifico di vivere un servizio nella Chiesa: il sacerdote è, possiamo dire, un uomo per gli altri. Il cristiano, e quindi il sacerdote, deve entrare profondamente nei meandri della storia, deve riuscire a vedere il Volto di Cristo in tutti gli uomini e le donne che incontra, specialmente quelle sofferenti. Deve cioè riuscire ad identificarsi totalmente con loro, per poter da loro risalire a Cristo Risorto.

L’amore di Dio e di Cristo, come sappiamo, sono inseparabili dall’amore verso il prossimo, soprattutto verso il prossimo che soffre. Richiamando la parabola del Buon Samaritano, possiamo notare come solo uno si accorge e si ferma, e tutto quello che accade sarà l’effetto automatico di questo momento di attenzione, una vera esperienza di qualificazione dello sguardo in direzione di Dio, un vero e proprio desiderio di comunione con Dio avvertito e percepito in quel mendicante.

Ebbene, proprio tale gesto di attenzione rivela allo stesso tempo la giustizia e l’amore. Colui che pratica tale gesto di attenzione, accetta di farsi piccolo e di non accrescere il suo potere, compie questo gesto solo perché l’altro esiste. E per fare ciò si annulla e si mette nella condizione dell’altro. L’amore di questo gesto rende manifesta la fede e la speranza e, quindi tutta la logica sacerdotale in cui Dio si fa protagonista dell’evento sacrificale, si identifica con la vittima, diventa dono; così che il nostro atteggiamento consiste nel riconoscere, scoprire Dio nella sua attività inaspettata.

Dio stesso è presente al contempo in colui che attua in favore dell’altro (in questo caso il samaritano), ma anche nel povero sofferente. È un fatto amoroso che accade ed esiste solo in Dio e per Dio. Dio stesso si incarna al centro della sofferenza per poter, da lì, rivelarsi alle persone che soffrono e a quelle persone che hanno com-passione. Lui, quindi, è colui che rende l’essere umano capace di uscire dalla sua autosufficienza e fargli sperimentare la fede che, nella carità e nell’attenzione al sofferente, è capace di restituirgli la sua soggettività, convertendolo in soggetto attivo della sua storia. Riconoscere il diritto altrui significa, quindi, riconoscere il diritto di Dio che si fa presente nel volto dell’altro; significa riconoscere il diritto di Cristo che si fa esigente nel sacramento del fratello.

Commentando l’inno cristologico di Fil 2, 1-11, il teologo Jon Sobrino afferma che nell’inno si afferma con radicalità la condizione umana di Gesù attraverso un abbassamento che lo converte in un doulos, uno schiavo. L’inno, prosegue il gesuita, enfatizza la decisione di Cristo di assumere la condizione di schiavo, in cui “la kenosisviene presentata non solo come ciò che si sopraggiunge per necessità o fatalismo storico, e nemmeno solo per fedeltà alla sua missione, ma come ciò che lui sceglie liberamente e coscientemente, e con cui aumenta la novità e lo scandalo”. La kenosis esprime profondamente l’assunzione da parte di Gesù  della condizione umana, specialmente in ciò che questa possiede di debole e sofferente. Gesù accetta l’affinità con la condizione umana e, più in particolare, con le vittime. Perciò, “se l’avvicinamento è già una realtà salvifica, l’abbassamento lo diventa di più per le vittime stesse”.

Abbassarsi, pertanto, “significa giungere ad essere in comunione con coloro che ‘sono in basso’, e diviene un modello teorico per comprendere la salvezza”.

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