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La teologia del fallimento

E’ arrivato il momento di sviluppare una teologia del fallimento. Il vangelo di questa domenica usa parole tanto lontane dallo spirito dei nostri tempi: “Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà (Mt 10,39). Chi è disposto oggi a perdere qualcosa? (Casomai sono tante le cose che ci vengono tolte… Tuttavia l’obiettivo è sempre più chiaro: tenere per sé, guadagnare, vincere. Niente di nuovo. Un meccanismo che deriva dalla logica di mercato, per la quale conta solo il guadagno mentre la perdita è vista come un segno di debolezza. Ciò ci rende frustrati e rassegnati.

Non tutti possono vincere. Anzi, chi ha più esperienza sa benissimo che spesso a trionfare non sono i migliori. Cosa fare allora? Lasciare spazio solo ai vincitori immeritevoli e rinunciare? Il vangelo di oggi cerca di risolvere proprio questo dilemma. Prima cosa: dobbiamo affidarci completamente a queste parole di vita. Seconda: dobbiamo sviluppare una teologia del fallimento, della perdita, per consentire di operare a questa misteriosa promessa di Gesù.

Spesso, quando non otteniamo ciò che vogliamo, ci rodiamo dentro. Riflettiamo sulle occasioni perse e speriamo di avere nuove chance. Ed è giusto. Ma non è forse più ragionevole sfruttare il vuoto lasciato dalla sconfitta? La tradizione monastica è ricca di storie di persone che consapevolmente decidevano di perdere la loro vita terrena per guadagnarsi quella eterna. E questo non era altro se non l’attuazione pratica del vangelo.

Pazienza, perseveranza e umiltà sono le dimensioni di questa opzione. Tutto ciò conduce alla visione reale della nostra posizione nel mondo. L’abate Pastor ha detto: “Prosternarsi davanti a Dio, non darsi alcuna importanza, mandare a spasso la propria volontà: ecco gli attrezzi con i quali l’anima può lavorare”. E anche: “Non darti importanza ma legati a colui che si comporta bene”. L’abate Evagrio disse: “Il principio della salvezza è condannare se stessi“.

Parole che possono sembrarci esagerate. Ma che mostrano, in realtà, l’atteggiamento da adottare, l’unico in grado di portare pace nella nostra vita. All’inizio non sarà facile: sarà necessario cambiare prospettiva, il modo in cui oggi guardiamo noi stessi e il mondo. Eppure solo quando lasciamo a Dio la cura di noi stessi con l’obiettivo di piacere solo a lui “perdiamo” veramente la nostra vita. In quel momento andremo contro tutte le tendenze moderne. E questo non avrebbe nessun senso se si dimenticasse la presenza vigilante ed attiva del Signore stesso. Questa è da sempre la visione esistenziale dei monaci. Volevano sempre vivere alla presenza di Dio, le altre cose non gli interessavano. Diceva un anziano: “Se il tuo pensiero dimora in Dio, la forza di Dio dimora in te“. L’abate Mios, invece, sosteneva: “Se uno obbedisce a Dio, Dio gli obbedisce“.

In soldoni: più umilmente e fedelmente viviamo la nostra esistenza, più facilmente troveremo la pace e – sia pur in un modo che ancora non conosciamo – noi stessi, secondo le possibilità offerte da Dio.

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