Chi mi ha posto come giudice e mediatore tra voi”, chiede Gesù, a due fratelli, in conflitto tra loro – tanto per cambiare – di fronte a una eredità da dividere, a diritti, legittimi o presunti, da difendere. La risposta del Signore – e la successiva parabola – rivelano, ancora una volta, la profonda inconsistenza che spesso accompagna i nostri sogni e i nostri capricci. Ci affanniamo continuamente per ciò che non vale, che non dura, che non resiste all’usura dei giorni; intentiamo processi, sprechiamo tempo ed energie per ottenere morbosamente quello che, comunque, dovremo poi lasciare, per sempre, agli altri. Rischiamo di rovinare i rapporti – anche quelli più teneri e famigliari – per la smania ossessiva di possedere ciò che non appaga le attese del cuore. “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?”, domandava, con dolore, il profeta Isaia al suo popolo (Is 55,2).
“Vanità delle vanità – dice Qoèlet – tutto è vanità”: tutto è un rincorrere il vento. Per chi o per che cosa lavoriamo, fatichiamo, operiamo ogni giorno? Per chi ogni mattina riprendiamo il faticoso percorso della vita, affrontiamo mille impegni e disagi, ci arrabbiamo, compromettiamo a volte la salute, passiamo addirittura nottate in bianco, litighiamo e siamo insofferenti verso tutto e tutti? Vanità delle vanità, tutto è vanità…
Gesù, con una semplicità che sconcerta, ancora una volta capovolge i termini della questione e in brevi tratti delinea il senso autentico della nostra esistenza. Il tempo, i beni, le qualità, gli innumerevoli talenti – che qualificano la nostra persona – sono un bene prezioso, assai più prezioso dell’oro che nascondiamo nei nostri forzieri o che depositiamo nelle cassette di sicurezza. Il nostro solo e vero patrimonio è il nostro cuore, fatto per amare, creato da Dio a sua immagine, perché siamo generosi dispensatori delle nostre sostanze e di noi stessi ai nostri fratelli. La capacità di operare, la creatività, la “voglia di fare”, le infinite risorse della mente e del cuore sono strumenti vivi ed efficaci della carità, che non ci induce ad accumulare tesori nei nostri insicuri depositi -là dove i ladri scassinano e i tarli corrodono (cfr. Mt 6,19 ss)- ma a educarci alla gratuità, al sacrificio, alla cristiana solidarietà verso il prossimo.
I discepoli del Signore non sono persone sprovvedute o improvvide: essi, al contrario, sanno investire le loro proprietà con una accortezza che il mondo – abbagliato dai suoi miraggi – normalmente ignora. Il cristiano sa puntare tutto sull’unico tesoro che rimane per sempre; si fida del solo imprenditore che pensa a un profitto eterno, che garantisce interessi da capogiro e che, oltretutto, ha il solo desiderio di condividere totalmente i suoi beni con i suoi figli. La Chiesa, proponendo la verità immutabile del Vangelo e indicando traguardi così alti e così ambiziosi, insiste continuamente perché i fedeli adoperino il loro ingegno e le loro risorse per assistere in terra i fratelli bisognosi: il Cielo inizia quaggiù, regalando un sorriso, quando forse vorremmo piangere; facendo “due miglia”, anziché uno, con una persona noiosa, offrendo sempre e con generosità il tempo “rubatoci” dagli altri.
“In terris” inizia il grande pellegrinaggio, che ci condurrà alla meta del Cielo. Sulle povere vie del mondo avviene il miracolo di una carità che troverà la sua pienezza in Paradiso ma che quaggiù, nei bassifondi del cuore umano, già vuole produrre inaspettati e fragranti frutti di bontà, di gratuità, di amore. Il Cuore Immacolato della Vergine è il rifugio sicuro e la via che riconducono l’anima in alto, senza mai dimenticare “i compagni di viaggio” del nostro peregrinare “in terris”.