L’altare è detto anche, molto giustamente, mensa, in quanto i fratelli si cibano del Corpo e Sangue di Cristo. Tuttavia parlare di mensa e magari tavola, per un linguaggio più corrente, fino a far passare la parola altare come parola obsoleta, indebolisce fortemente la partecipazione all’Eucaristia.
Infatti, altare significa luogo del sacrificio, e noi sappiamo che la Messa è la rinnovazione dell’unico sacrificio di Cristo. Non ci sono chiodi, legno, spine, flagelli, ma gli stati interni di Cristo sono esattamente quelli che ebbe sulla croce. “Diverso è solo il modo di offrirsi” dice il Concilio Tridentino (Denziger 1743), ma è lo stesso e unico sacrificio della croce. Tenendo presente questo, ne segue che nella Comunione si riceve Cristo in stato di vittima, e che perciò ci invita, infondendoci il fuoco dello Spirito Santo, ad essere in lui e con lui un sacrificio a Dio gradito (vedi canone 3: “Egli faccia di noi un sacrificio a te gradito”). Se si considera obsoleta la parola altare accade che la partecipazione all’Eucarestia sia caratterizzata quasi solo dal desiderio della Comunione e non da quello fondamentale di partecipare al Sacrifico e offrire se stessi, le proprie pene. La partecipazione all’Eucarestia diventa ricerca del benessere, dello stare bene, conseguenza stretta del volere stornare da sé le croci, che pur sono inevitabili nella vita. La Celebrazione Eucaristica finisce per trasformarsi in semplice sacrificio di lode, dove il reale sacrificio di Cristo non è il tutto che promuove il sacrifico di lode, cioè una partecipazione forte, decisa nel seguire Cristo, gioiosa, di una gioia non superficiale, ma di quella donata da Cristo (Gv 15,9-17).
In pratica, la Messa diventa attesa della Comunione, e tutto il resto, che è il fulcro da cui discende la Comunione, è vissuto come un rito nel quale si è presi dai canti, che certamente ci vogliono, dalla gioia festiva, che certamente deve esserci, ma non con forza dalla consapevolezza del sacrificio tremendo – aggettivo molto usato nel passato – dell’altare.
Nel passato, fino ai primi decenni del 1900 negli ordini religiosi si ammettevano i religiosi e le religiose alla Comunione non tutti i giorni, ma pur alla Messa bisognava partecipare tutti i giorni. Il Concilio Tridentino, pur ritenendo ottimale la partecipazione all’Eucarestia facendo sempre la Comunione, difese la pratica della Messa senza la Comunione (Denzinger 1747), che veniva ad essere spirituale. Il perché stava nel fatto che i fedeli avessero ben chiaro che il modo migliore di partecipare al Sacrificio eucaristico era quello di parteciparvi in stato oblativo. Ora la Chiesa ha affermato, in coerenza col Tridentino, che i fedeli, giunti a maggiore maturità spirituale, si accostino in ogni Messa alla Comunione, essendo la Comunione parte integrante della Celebrazione eucaristica, così come lo è la liturgia della Parola. Il rischio è quello di mirare solo alla Comunione, che però fallisce nella sua forza di comunicazione se non vi è partecipazione al Sacrificio.
Partecipando al Sacrifico eucaristico, facciamo “memoria di Cristo”, presente con gli stessi stati interni che ebbe sulla Croce. Così consideriamo quanto Gesù ha sofferto per noi, e alla generosità infinita di lui rispondiamo con generosità, accettando le sofferenze fisiche e le pene interiori, unendole a ciò che Gesù ha sofferto affinché gli uomini abbiano in lui conversione e pace. La parola sacrificio, “fare una cosa sacra”, rimarrà fino alla fine del mondo. Oggi la si vuole eliminare perché la si ritiene di ostacolo all’annuncio ai giovani, e si vuole parlare solo di amore. Ma se l’amore non si sostanzia di sacrificio diventa solo un vago ideale senza alcuna concretizzazione. L’amore è donare anche quando costa, appunto anche quando diventa sacrificio.
Non solo l’Eucarestia è invito a offrire le nostre pene quotidiane, le nostre sofferenze causate dalle malattie, le difficoltà del lavoro, nelle famiglie, ma ci invita a molto di più. Infatti, le parole “Rinneghi se stesso prenda la sua croce” (Lc 9,23), segnano i preliminari necessari per seguire Gesù, altrimenti si rimane tra gli insofferenti. Senza questi preliminari non si segue Gesù. Seguire Gesù vuol dire seguirlo lungo la strada da lui percorsa, accettando, amando, le sofferenze della testimonianza (Mt 5,14), sono queste le luminose e magnifiche croci (Cf. Col 1,24).
Chi testimonia Gesù è odiato dagli uomini, perseguitato da loro, proprio a causa della testimonianza (Ap 1.9; 11,10). E’ attaccato dai demoni, che vedono in lui un liberatore, in Cristo e dipendentemente da Cristo, di uomini (Ap 12,11). L’Eucaristia conduce non solo a vivere i preliminari del seguire Gesù, ma a seguire Gesù; cosi le parole del terzo canone eucaristico “Egli faccia di noi un sacrificio a te gradito” sono desiderio di imitare Gesù, di seguire Gesù. Così il testimone di Cristo, evangelizzando con l’esempio e la parola, compie un atto cultuale (Rm 1,9). E’ a questo punto che la preghiera nell’Eucaristia diventa forte nell’umiltà e nella carità.
Nel’Eucarestia non si ha solo il sacrificio di Cristo, ma anche, unito a quello di Cristo, il sacrificio della Chiesa. Il valore di ogni Celebrazione dipende dall’intensità della partecipazione, il che dice che non tutte le Celebrazioni hanno il medesimo valore: infinito il valore del sacrificio di Cristo, ma oscillante quello della partecipazione. Una Celebrazione fatta in fretta, senza ringraziamento, senza offerta delle sofferenze a causa del Vangelo ottiene ben poco. Così si spiega come una Messa celebrata da padre Pio potesse ottenere tanto. Messa e annuncio sono realtà unite. Messa e attesa di Cristo sono unite, perché la vittoria di Cristo e il suo ritorno glorioso, sono forza per non sentirsi mai degli sconfitti. Nell’Eucarestia noi partecipiamo al sacrificio di Cristo, ma sappiamo che egli ha vinto risorgendo dai morti e salendo al cielo. “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”.