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Comprendere la Passione

L’ambiguità della parola “passione” può servire come una buona introduzione all’ultima domenica della Quaresima chiamata proprio “della Passione del Signore”. Ovviamente qui “la passione” indica il tormento che ha portato Gesù alla morte: il tormento crudele, iniziato con le torture eseguite dai suoi aguzzini, proseguito con la via crucis e concluso con l’agonia della croce. La passione era una strada verso la morte.

L’altro significato di “passione è legato alle emozioni – forti, talvolta dolorose o travolgenti – come quelle descritte in due composizioni di Beethoven: la “Patetica” e la “Appassionata”. Pathos, la parola greca dalla quale deriva il termine, veniva utilizzato per spiegare il trasporto emotivo provocato dalle tragedie teatrali.

Nella teologia passione e morte vanno insieme, sia pur necessariamente riferite alla risurrezione. Senza quest’ultimo elemento perdono significato, si riducono a un evento tragico e atroce fine a se stesso.

A volte le nostre emozioni diventano un peso, ci danno dipendenza. Per questo molti monaci e filosofi consideravano la capacità di resistervi alla stregua di una virtù. Apatheia non significava tanto indifferenza quanto l’attitudine a mantenere un sereno distacco, una pace imperturbabile.

E’ significativo che il vangelo di Giovanni parli di un Cristo “glorificato” attraverso la sua sofferenza e morte. Seguendo questa linea la Chiesa delle origini non si soffermava sulla passione preferendo concentrarsi sulla risurrezione – la quale però non sarebbe stata possibile senza la morte – quasi che il dolore patito da Gesù fosse qualcosa di cui vergognarsi, non meritevole di menzione. Solo a partire dal IV secolo i luoghi e i ricordi della Passione cominciarono a suscitare interesse. Questo cambio di prospettiva diede il via ai pellegrinaggi in Terra Santa, alla devozione per la Santa Croce, al culto delle reliquie. L’arte gotica fece il resto, rappresentando la morte del Signore in tutta la sua drammaticità.

Oggi siamo abituati a confrontarci con l’immagine del Cristo sofferente, diventato la raffigurazione dei tanti tormenti vissuti dall’uomo nel corso della storia (pensiamo alle persecuzioni subite da tante persone di cui veniamo a conoscenza grazie ai media). Un’abitudine che, tuttavia, rischia di renderci indifferenti davanti alla Passione del Signore. Ci sentiamo come oppressi dalla sua presenza e dalle responsabilità che essa comporta, finendo con l’evitarla e col vivere come se non fosse mai esistita. Allo stesso modo fuggiamo anche dai nostri dolori, perché non sappiamo confrontarci con essi, o perché ci pongono domande esistenziali cui non vogliamo rispondere.

Il problema della passione, dunque, rimane e senza Gesù non possiamo risolverlo pienamente. Finiremmo col torturarci tra le nostre perplessità, i nostri tormenti interiori, trovandoci in una condizione d’impotenza davanti alla sofferenza del mondo.

Per questo abbiamo davvero bisogno della Domenica delle Palme: è il giorno dove possiamo – e dobbiamo – recuperare la giusta prospettiva davanti alla Passione. Una prospettiva pacifica e serena, nella quale non ci faremo influenzare dalle circostanze esterne o dai nostri limiti, trovandoci in piena armonia con Dio e quindi padroni totali di noi stessi. La gloria della croce è l’annuncio della fine di ogni sofferenza, sia nella dimensione individuale che globale. Questo è il messaggio centrale del cristianesimo, ancora attuale nel nostro tempo.

Bernard Sawicki OSB, coordinatore dell’Istituto Monastico presso l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo a Roma

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