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Giovanni Falcone

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Ormai si è arrivati alla ventottesima ricorrenza della morte di Giovanni Falcone, ma l’attentato sembra avvenuto ieri, tanto è profondo quell’evento nella coscienza del paese. Ho conosciuto Falcone a Palermo già prima che diventasse noto, e poi l’ho frequentato ancora fino a quando fu trasferito, nel febbraio del 1991, presso il Ministero della giustizia, anno in cui anche io arrivai a Roma a dirigere il Sindacato nazionale dei lavoratori delle costruzioni. Un uomo che innovò immediatamente l’iniziativa antimafia, non limitandosi a indagare sugli affari loschi e cupi della piovra Siciliana, ma che coraggiosamente e tenacemente, e per primo, indagò sulle piste criminali di oltreoceano, in collaborazione con i giudici americani, fin dove arrivavano i suoi tentacoli. Dunque, non si limitò a perseguire i manovali della organizzazione criminale; gran parte della sua fruttuosa attività, fu rivolta a scoprire le piste più intricate che portavano ai piani alti: i ‘colletti bianchi’ quelli che comandavano davvero il traffico di droga e di armi.

Ormai era troppo esperto per non sapere che spesso era la stessa organizzazione criminale a scaricare i piccoli mafiosi ritenuti bruciati o traditori. La pista principale che uso per incastrare i mafiosi, era dunque quella del crimine di cosa nostra degli ‘States’, che riteneva il punto di vera triangolazione tra i produttori degli stupefacenti, la gestione del mercato illegale nordamericano e quello europeo, che i criminali siciliani sostenevano con approdi sotto il loro controllo della merce da distribuire per l’Europa. La sua pista per arrivare a stringere nella rete ‘cosa nostra’ fu una strategia all’epoca del tutto inusuale. La sua cultura di operatore di giustizia , garante (nel senso più autentico) dello Stato di diritto, e la grande popolarità ed autorevolezza presto raggiunta, ben presto suscitò risentimenti di varia natura contro di lui. Infatti, era lontano da una certa antimafia, troppo intrisa di speculazione politica. Infatti va ricordato che in più di un caso, con le sue analisi fatte in pubblico, sconfessò alcuni di quei teoremi confezionati ad arte per interessi oscuri o politici, che in qualche caso, più che colpire la mafia, colpivano anche servitori dello Stato, che hanno impiegato decenni per dimostrarsi innocenti. Ma proprio per la sua limpida azione autonoma di Giudice a tutto tondo, libero dalla politica e da ogni altro interesse, gli procurò delle amarezze ed attacchi diretti ed indiretti, le cui finalità tutt’ora non sono state ancora chiarite. Infatti accettò la proposta del Ministro di Giustizia dell’epoca Claudio Martelli, proprio perché, nonostante i suoi successi contro la mafia, fu palesemente ostacolato a dirigere la Procura della Repubblica di Palermo, città che amava tantissimo.

La sua opera, più passa il tempo, più splende come esempio di servitore dello Stato nella realtà della giustizia. Tant’è che ha dimostrato come un giudice può esercitare limpidamente l’autonomia in ossequio al principio costituzionale, come un magistrato si può impegnare rifuggendo le esposizioni mediatiche, come si può lottare la mafia con una opera di coordinazione intelligente tra polizie e giudici a livello internazionale.

Raffaele Bonanni: