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“Vi racconto cosa accade in Cisgiordania”: la testimonianza a Interris.it di un italiano a Ramallah

Interris.it ha raccolto la testimonianza esclusiva di Moreno Caporalini, italiano cattolico che vive e lavora a Ramallah (in Cisgiordania) da oltre dieci anni e che ha vissuto da lì l'attacco di Hamas e la controffensiva di Israele a Gaza

Prosegue senza sosta lo scontro tra Hamas e Israele con bombardamenti israeliani su Gaza e con il lancio di razzi dalla striscia in territorio israeliano. L’escalation è iniziata lo scorso 7 ottobre con l’attacco terroristico di Hamas in territorio israeliano durante il quale sono stati uccisi circa 1100 israeliani (tra cui anziani, donne, bambini e neonati) e presi in ostaggio circa 200 civili. Senza precedenti la risposta di Tel Aviv, con i bombardamenti nel nord della striscia e su Gaza City che vanno avanti ininterrottamente da quasi tre settimane ed hanno provocato finora la morte di quasi 6mila palestinesi. La situazione è critica non solo dentro Gaza – dove ormai è palese il disastro umanitario e si teme un’ecatombe – ma anche in tutto Israele, che vede sorgere tensioni sia all’esterno, lungo i confini con il Libano e la Siria, sia all’interno, nella Cisgiordania.

La Cisgiordania, terra contesa

La Cisgiordania è un’area situata a ovest del fiume Giordano sottoposta a controllo misto da parte di Israele e dello Stato di Palestina. La situazione politica nella Cisgiordania è complessa e rientra nel più ampio conflitto israelo-palestinese che comprende anche Gaza. In seguito alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Israele ha occupato la Cisgiordania e da allora la regione è stata oggetto di tensioni e negoziati per un futuro status politico che ad oggi non hanno trovato una soluzione. Per lo Stato di Palestina, si tratta di un territorio palestinese parzialmente occupato da Israele. Per Israele, si tratta di un territorio israeliano, denominato Giudea e Samaria, che comprende zone amministrate dai palestinesi. L’attacco di Hamas ha avuto forti ripercussioni anche in questa zona di circa 340 km quadrati dove, già precedentemente al 7 ottobre, la situazione era decisamente tesa.

Interris.it ha raccolto la testimonianza esclusiva di Moreno Caporalini, italiano cattolico che vive e lavora a Ramallah (una delle principali città della Cisgiordania) da oltre dieci anni portando avanti un progetto internazionale di sviluppo sostenibile per alcuni comuni palestinesi. Caporalini ha vissuto l’attacco di Hamas, i primi concitati giorni con la risposta di Israele, ed è riuscito ad uscire dal paese – senza non poche difficoltà – per tornare in Italia solo qualche giorno fa. Interris.it l’ha intervistato per raccontarci come si viveva in Cisgiordania prima e dopo l’attacco di Hamas e dei passi da compiere per arrivare ad una pace duratura.

A sinistra: Moreno Caporalini. A destra: attacco israeliano sulla città di Jenin, in Cisgiordania. Foto: Vatican News

L’intervista a Moreno Caporalini

Tu cosa facevi a Ramallah?

“Sono perugino ma vivo a Ramallah da dieci anni. Dirigo tra Ramallah e la vicina Gerusalemme un progetto di cooperazione internazionale che è finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e ha come partner in Italia l’Unione dei Comuni del Trasimeno, l’Unione dei comuni Terre dell’Olio e del Sagrantino, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci) e l’Associazione dei Comuni per lo Sviluppo Sostenibile (Felcos). Come partner abbiamo 21 comuni palestinesi. Il tema del progetto è intervenire sulla gestione delle problematiche ambientali in due aree della Cisgiordania per sperimentare la pianificazione degli interventi sull’ambiente a livello intercomunale e, in particolare, cercare di organizzare in modo migliore il tema della gestione dei rifiuti e del recupero degli spazi pubblici. Il progetto si inserisce nel filoni dello sviluppo sostenibile. In pratica, il progetto serve a migliorare la qualità dei servizi che i comuni palestinesi offrono ai loro concittadini e – nello specifico – a migliorare il sistema di raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti; nonché l’utilizzazione a fini pubblici di terreni che sono stati abbandonati oppure che vengono gestiti con qualche difficoltà”.

Quando sei tornato a Perugia?

“Cinque giorni fa, a conflitto già iniziato”

E’ stato difficile uscire da Israele?

“Sì, molto. Sia perché le strade interne sono difficili da percorrere per i numerosi posti di blocco militari presenti in Cisgiordania; sia perché ora ci sono i coloni israeliani armati lungo le strade che rendono la circolazione molto pericolosa. Quindi sono passato da Ramallah al ponte di Allenby [che collega Israele alla Giordania, ndr] con un po’ di difficoltà e poi da lì ad Amman e infine sono partito per l’Italia”.

I coloni sparano sulle macchine che passano?

“A volte sì”.

E i civili come voi come fanno a passare illesi? Hanno delle bandiere o dei simboli sui mezzi per farsi riconoscere?

“No, non abbiamo niente. Dobbiamo solo sperare e pregare che non accada nulla. La situazione si è molto esacerbata dopo l’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre. Ma già prima era pericolosa”.

Perché la situazione in Cisgiordania era pericolosa già da prima dell’attacco di Hamas a Gaza?

“La situazione generale in Israele è complessa e molto complicata praticamente da sempre. Questo perché sia Gerusalemme est sia tutta la parte di Palestina che non è Gaza è sotto occupazione militare da decenni. I territori della Cisgiordania sono divisi in aree, ma negli anni c’è stato un proliferare di insediamenti israeliani in terra palestinese che ha raggiunto livelli molto importanti. L’esercito inoltre monitora e vigila tutto il territorio palestinese con frequenti posti di blocco che rendono gli spostamenti molto lunghi e complicati. Questa è la normalità. Ma la situazione si è ulteriormente aggravata dal dicembre 2022, quasi un anno fa”.

Cosa è successo un anno fa che ha acuito le tensioni già presenti?

“Sono avvenute le incursioni dell’esercito israeliano dentro le città palestinesi. Accadeva anche prima, ma dal dicembre scorso sono diventate molto più frequenti. A queste, si sono accompagnate le incursioni dei coloni israeliani (anche armati) nei villaggi palestinesi: i coloni hanno invaso i terreni agricoli e lì hanno tagliato gli olivi coltivati dalla popolazione. Un atto insensato che, dal punto di vista economico – ma anche psicologico – è davvero devastante! Negli ultimi mesi, inoltre, sono avvenuti dei veri e propri assalti alle città attorno alla zona di Nablus, come riportato anche dalla cronaca internazionale. In sintesi, la situazione prima del 7 ottobre era già molto tesa e andava progressivamente peggiorando. Ma nessuno si sarebbe potuto immaginare la violenza inumana e la devastazione totale che poi sono accadute lungo i confini di Gaza per mano di Hamas”.

Come hai vissuto da Ramallah gli accadimenti di quel terribile 7 ottobre?

“Io non vivo lontano da Gaza. Perché Israele è una nazione non molto estesa: in linea d’aria Gaza dista da Tel Aviv solo 25 km e Tel Aviv dista 15 km da Ramallah e da Gerusalemme. In pratica, distiamo solo di 40-45 km. Quindi ho visto chiaramente i missili e la contraerea che partiva per andare a bombardare. Inizialmente, ho pensato che si trattasse del ‘consueto’ scambio di missili da Gaza verso Israele e della risposta israeliana. Dico ‘consueto’ non per banalizzare, ma perché fino al 7 ottobre gli scontri tra Hamas e Israele si svolgevano su questo piano. Quindi, inizialmente, non ero particolarmente preoccupato. Ma quando sono arrivate le prime notizie della strage compiuta da Hamas ho provato dolore, amarezza, sgomento totali; e grandissima preoccupazione. Oltre che immensa sorpresa: nessuno si aspettava che fosse possibile per Hamas riuscire ad entrare dentro Israele e compiere indisturbati quelle cose terribili a uomini, donne, ragazzi e anche bambini che poi hanno fatto. Si è toccato un nuovo livello di scontro mai raggiunto prima. Con l’orrore e il cordoglio, col passare delle ore ho provato vero terrore perché immaginavo che la risposta di forza di Israele sarebbe stata anch’essa senza precedenti, come purtroppo stiamo vedendo in questi giorni. Nell’attacco di Hamas sono morti oltre 1400 israeliani; a Gaza i morti sono oltre 6mila. E non è ancora stato dato il cessate il fuoco”.

Cosa è accaduto in Cisgiordania dopo l’attacco di Hamas?

“Dopo l’attacco, la situazione è nettamente peggiorata ovunque, non solo vicino alla striscia: l’esercito ha chiuso tutte le città della Palestina, non si poteva entrare o uscire se non con grandi difficoltà; sono aumentate le incursioni di coloni che sono diventate praticamente quotidiane ovunque. L’esercito israeliano ha attaccato anche vicino a Ramallah, a Nablus, a Jenin causando numerosi morti. La situazione è diventata critica ovunque, anche lungo i confini di Siria e Libano”.

Come vivono i cristiani in Cisgiordania?

“Normalmente, il rapporto con ebrei e musulmani nonché con le altre confessioni cristiane presenti in Terra Santa è sempre stato molto pacifico, sia a Ramallah sia a Gerusalemme Est. Ramallah tra l’altro è una città di origini cristiane dove è stanziata una grande comunità cristiana che ha sempre vissuto e convissuto senza problemi. Secondo me, non c’è mai stata in queste zone una ‘guerra di religione’. Però ora la comunità cristiana sta attraversando un momento pesantissimo: bombardando, Israele ha colpito anche le chiese cristiane a Gaza e c’è allarme per quello che sta succedendo in tutto il Paese. Il mondo cristiano è una minoranza dal punto di vista numerico, ma è parte integrante della Terra Santa. Inoltre, le comunità cristiane – come quella di Betlemme – vivono soprattutto del turismo internazionale, dei milioni di fedeli che giungono ogni anno per visitare i luoghi cari alla tradizione. Ma in questo momento è tutto fermo e blindato, dunque le persone sono senza lavoro. La crisi economica si fa sentire ed è già molto pesante”.

Che cosa auspichi per la Terra Santa?

“Io sono d’accordo con quello che ha detto ieri il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres: la prima cosa da fare è fermare i bombardamenti e tutte le azioni di guerra in atto. Se si continua a bombardare o si continuano a lanciare razzi da Gaza, niente di positivo è possibile. Quindi, come prima cosa, auspico il cessate il fuoco immediato da ambo le parti al fine di non provocare la morte di altre migliaia di civili che non c’entrano assolutamente niente con questo conflitto. La seconda cosa è quella di garantire l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza e di impedire il collasso degli ospedali, già duramente provati. La terza cosa è che la comunità internazionale, che è corresponsabile di questa situazione, si impegni concretamente ad aprire un negoziato alla fine del quale ci possa essere una soluzione stabile ai problemi irrisolti da decenni; che vedano riconosciuti il diritto di Israele ad esistere e a vivere in sicurezza accanto ad uno Stato palestinese che abbia altrettanti diritti e altrettanta sicurezza. Non vedo altre vie di uscita oltre alla creazione di due Stati”.

Qual è a tuo dire l’obiettivo di Israele in questo momento?

“Secondo me Israele non ha al momento un obiettivo preciso. E questo è uno dei motivi di preoccupazione. Credo che abbiano avuto il bisogno di reagire in modo plateale a quanto accaduto il 7 ottobre. E questo è comprensibile poiché ci sono stati massacri terribili e 1.100 morti. E, soprattutto, è stato colpito l’idea di Israele quale ‘luogo sicuro per gli ebrei di tutto il mondo’: un posto inespugnabile. Ma l’attacco di Hamas ha dimostrato il contrario. La reazione è istintivamente di vendetta, ma la vendetta non è una strategia. Non si vede in questo momento quale possa essere precisamente la strategia di Israele. Prima o poi, i bombardamenti finiranno, si conteranno migliaia di vittime, devastazioni su larga scala. Ma il problema di fondo rimarrà lo stesso. Quindi, cosa si aspetti il governo di Israele non lo so. Cosa si aspettano molti israeliani è – credo – un cambiamento di atteggiamento della propria classe dirigente che ponga la questione della convivenza pacifica al primo posto rispetto a tutto il resto”.

Pensi di rientrare un giorno a Ramallah e Gerusalemme?

“Sì e spero di poterlo fare il prima possibile. Perché sento come un dovere il vivere lì, in quanto c’è realmente necessità del nostro aiuto; se ci saranno le condizioni rientrerò appena possibile. Speriamo che il cessate il fuoco arrivi il prima possibile. Per una pace duratura la strada è sicuramente lunga, ma non impossibile”.

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