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L’inganno della giustizia popolare

Il linciaggio sociale: le radici di un problema connesso alla crisi antropologica in atto e le differenze con la giustizia

Fin dalle origini ciò che tormenta il Dio biblico non è l’omicidio in sé, bensì la vendetta che si scatena contro il colpevole”. La riflessione su giustizia e ‘giustizia popolare’ (o linciaggio) di Guglielmo Gallone in un articolo de L’Osservatore Romano che riportiamo per intero.

L’inganno della giustizia popolare

«Chiunque ucciderà Caino subirà la sua vendetta sette volte!», dice il Signore nel libro della Genesi (4, 15). Così, al figlio maggiore di Adamo ed Eva, fratello di Abele, primo uomo nato nella storia umana e anche primo fratricida, viene imposto un segno affinché «non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (Gen 4, 15). Ecco il problema che, fin dalle origini, tormenta il Dio biblico: non l’omicidio in sé, bensì la vendetta. Denigrare, punire e uccidere chi si è macchiato di un delitto. In una sola parola, il linciaggio.

Fenomeno senza tempo — il termine è nato durante la guerra d’indipendenza americana (1776-1783) dal verbo lynch e a sua volta dalla legge di Lynch, la pena di morte senza processo (vedi Garland D., Public Torture Lynchings in Twentieth Century America, Law & Society Review, 2005) —, il linciaggio è stato declinato in modi tanto diversi ma sempre atroci. Oggi si parla di revenge porn, cioè di condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite internet senza il consenso dei diretti interessati. Che dire poi del linciaggio mediatico, quello dei social network, dove personaggi famosi vengono attaccati perché ritenuti colpevoli di aver assunto un certo atteggiamento o fatto una certa dichiarazione?

Tra bullismo e cyberbullismo, anche i giovani non sono esenti da tutto ciò. Non basta evitare, occorre punire: quando si sventa un furto, una rapina o uno scippo, molti intervengono con la forza perché ritengono lo stato troppo debole. Insomma, il linciaggio pare proprio essere un atto umano per eccellenza (E. C. Sferrazza Papa, «Il linciaggio come paradigma della violenza politica», in A. Senaldi, X. Chiaromonte, Violenza politica — una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione, Ledizioni, Milano 2018): si fonda sull’esistenza dell’altro, di una comunità, di regole da rispettare e sulla paura che il prossimo non le rispetti. Vendetta, controllo, sovranità, potere, gerarchia: violenza e diritto si mescolano, i linciatori sono convinti di servire la giustizia popolare.

E allora una domanda prevale su tutte: perché nella società contemporanea, individualista e incapace di pensare in termini sociali, ci sono ancora soggetti che pensano di agire per «la giustizia popolare»? Secondo i termini entro cui descriviamo oggi la collettività, certi soggetti non dovrebbero agire per la giustizia personale anziché per quella popolare? Smartphone, pc e tablet non avrebbero dovuto renderci più individualisti? Elias Canetti, scrittore e saggista bulgaro naturalizzato britannico, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1981, direbbe che «la massa aizzata è antichissima, risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli uomini: la muta di caccia», ossia il «branco di animali che cacciano insieme» (Massa e potere, Milano, Adelphi 1981). Obiettivo della massa aizzata: allontanare un pericolo da cui altrimenti fuggirebbe, punire chi è diverso, contrastare la fortuna degli altri. Modalità: sopprimere.

Cosa ancor più facile oggi perché l’individuo nutre sempre più spesso un rapporto di ostilità con la collettività. Si è già detto su queste pagine che gli spazi tipici della società sono attraversati da crisi profonde: il concetto di famiglia sta cambiando, troppo spesso la scuola trasmette conoscenze ma non valori né tanto meno passioni, si stentano a trovare modelli di riferimento, le parrocchie continuano a svuotarsi. In politica, il populismo alimenta odio e indifferenza. Nella cultura, film e videogiochi banalizzano la violenza. Risultato: non volersi legare né alle cose né alle persone. Il filosofo coreano Byung-chul Han dice che «i legami sono inattuali» perché «sminuiscono la possibilità di fare esperienza, ovvero la libertà nel senso consumistico del termine» (Le cose non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Torino, Einaudi 2022).

Ed ecco come la collettività non è più luogo di condivisione, bensì uno spazio entro cui sfogare la propria frustrazione e dimostrare di essere più forti. Contro i più deboli, contro i diversi: citando René Girard, «la comunità sfoga la sua rabbia contro questa vittima arbitraria, nell’assoluta convinzione di aver trovato l’unica causa del suo male» (Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi 1983). Nello stesso testo, Girard collega questa idea alla rivalità: «Si tratta di seguire fino in fondo la logica del conflitto mimetico e della violenza che ne risulta. Più si esasperano le rivalità, più i rivali tendono a dimenticare gli oggetti che al principio la causano, e più sono affascinati gli uni dagli altri. La rivalità, insomma, si purifica di qualsiasi esteriore posta in gioco, si fa rivalità pura o di prestigio. Ogni rivale diventa per l’altro il modello-ostacolo adorabile ed odioso, colui che bisogna contemporaneamente abbattere ed assorbire. La mimesi è più forte che mai, ma ora non può più esercitarsi al livello dell’oggetto, per il semplice motivo che non c’è più oggetto. Ci sono ormai degli antagonisti, che designiamo come doppi, poiché, dal punto di vista dell’antagonismo, non li separa più nulla». E, riprendendo Canetti, «non c’è pericolo, la superiorità della massa è schiacciante. La vittima non può nuocere. Fugge o è legata. Non può colpire; inerme, è soltanto una vittima. È stata messa a disposizione per essere soppressa. È destinata alla sua sorte».

Sorte che neanche il progresso tecnologico è capace di cambiare. Perché, come nota Maurizio Ferraris nel libro Emergenza (Torino, Einaudi 2016), «la tecnica non è alienazione, ma rivelazione, ossia mostra all’umanità ciò che realmente è, al di là degli autoinganni, nel bene come nel male». E quindi no: smartphone, tablet e pc non ci hanno reso più individualisti e distratti, anzi hanno ampliato la frustrazione e alimentato l’invidia, facilitando la diffusione dell’odio e il linciaggio in sé. È più facile nascondersi — basti pensare ai tanti account fake. Sui social network si accumulano amici, followers, dati, viaggi, foto e informazioni. Ma si incontra davvero l’altro? Si entra in contatto col sapere? Si fanno esperienze? Si prende parte a una comunità?

Al di là del linciaggio e della violenza, è chiaro come in ballo ci sia una sola cosa: la saldezza dell’essere. La crisi antropologica che stiamo attraversando non sembra avere precedenti: essa s’instaura negli ideali, alimenta l’isolamento — e non la solitudine —, compromette le relazioni sociali, mina la percezione della collettività. La Chiesa oggi ha compreso l’entità di questo processo e sta insistendo su temi capaci di toccare le corde dell’anima umana: vicinanza, compassione, tenerezza, mitezza. Lo stile di Dio, ha ricordato Papa Francesco nella catechesi dell’udienza lo scorso 18 ottobre, sta proprio in queste parole.

Fonte: L’Osservatore Romano

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