Green grabbing in Nord Africa: nuova forma di colonialismo

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Serve energia per stoccare, comprimere e trasportare l’idrogeno “verde” lungo le dorsali africane, tanto più se in forma liquida. Le multinazionali per farlo usano le stesse pipeline del gas. «È una nuova forma di colonialismo» evidenziano gli attivisti di ReCommon, intervistati da L’Osservatore Romano.

Green grabbing in Nord Africa: nuova forma di colonialismo

«Nessuno sa per quanti anni ancora il gas verrà estratto in Africa dalle multinazionali petrolifere grazie all’escamotage del trasporto di idrogeno». Far passare idrogeno liquido dentro le infrastrutture del gas, «allungherebbe di molto la vita dei combustibili fossili». Questa è la conclusione cui giungono gli attivisti di ReCommon, tra i quali Filippo Taglieri che segue molto da vicino il dossier idrogeno e il capitolo della green economy. Tutti noi ci auguravamo che «l’estrattivismo predatorio potesse terminare tra il 2035 e il 2040», dice. Ma è probabile che durerà fino al 2050. «È una nuova forma di colonialismo, questa», afferma Taglieri. Proprio nei giorni della COP 28, il vertice mondiale sul clima a Dubai, si torna a parlare di green grabbing e water grabbing. Serve energia — e tanta — per stoccare, comprimere e trasportare l’idrogeno “verde” lungo le dorsali africane, tanto più se in forma liquida. Le multinazionali per farlo usano le stesse pipeline del gas.

Il metano tecnicamente è «una molecola che può portare con sé idrogeno riducendo le fughe», ci spiega ancora Taglieri. Non a caso «le società energetiche che controllano le infrastrutture per il trasporto del gas, stanno con mani e piedi nell’agenda dell’idrogeno». Ecco allora l’inganno delle corporations, secondo gli attivisti che lottano contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori: sostenere di voler riconvertire la produzione industriale, continuando invece a vendere gas.

«L’idrogeno ha molti limiti — afferma Taglieri — uno dei quali è il trasporto di lunga distanza». Il secondo è l’enorme quantità d’acqua necessaria ad estrarlo. Dunque, si chiede, come pensare di stoccare idrogeno in Nord Africa, senza considerare la perenne mancanza d’acqua di Algeria e Tunisia? «L’acqua andrebbe ricavata desalinizzando il mare: una follia». Per produrre un chilo di idrogeno da elettrolisi occorrono circa 9 litri di acqua, quindi per ottenere una tonnellata di idrogeno devono essere consumati ben 9.000 litri d’acqua. Una grande beffa per l’Africa e per il clima.

«In questo momento i Paesi coinvolti direttamente dal cosiddetto South hydrogen corridor sono Algeria e Tunisia come luoghi di produzione — ci spiega Taglieri —. Da lì partirebbe il nuovo gasdotto che passerebbe per la Sicilia, attraversando la dorsale italiana; passerebbe dall’Austria e finirebbe in Baviera». Un recente dossier di ReCommon, “L’illusione dell’idrogeno verde”, suffragato dalle ricerche del professor Leonardo Setti dell’Università di Bologna, è molto drastico sui risultati. «L’obiettivo non è la decarbonizzazione — afferma —, né tanto meno la sostenibilità, ma la costruzione di un mercato dell’idrogeno nel continente europeo di cui le multinazionali controllano le infrastrutture». Un piano da 80-143 miliardi di euro, che secondo Snam e le sue consorelle si può strutturare su ben cinque corridoi.

«Il Sahara viene descritto come una terra vasta e vuota, un deserto disabitato — scrive Hamza Hamouchene, attivista e ricercatore algerino —, una Eldorado per l’energia rinnovabile. E una opportunità d’oro per l’Europa! Ma questa narrazione elude la questione della proprietà e della sovranità». Privare le comunità locali dei loro diritti sulla terra e sulle risorse è, infatti, una grave violazione, conclude Hamouchene.

Fonte: L’Osservatore Romano

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