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Perché Dio si fida di noi

Nel Vangelo Marco scrive che Gesù risorto appare anzitutto a Maria Maddalena. Questa donna, che Gesù aveva liberato da sette demoni, diviene la prima annunciatrice della Risurrezione. Lei, a cui era stato molto perdonato, perché aveva molto amato, riceve la missione di essere la prima testimone del Risorto, “l’apostola degli apostoli”, come è stata chiamata lungo i secoli. Eppure sono proprio gli apostoli a non crederle e, fa capire il testo, a non accettare che una donna potesse portar loro il messaggio della vittoria divina: nonostante avessero seguito Gesù “mite e umile di cuore”, non riuscivano a comprendere che la forza del Signore si manifesta umilmente, attraverso la “debolezza” di un amore “più forte degli uomini”. E quando altri due discepoli, tornando da Emmaus, a loro volta annunciano di aver incontrato il Risorto, gli apostoli “non cedettero neppure a loro”: impauriti e schiavi del pessimismo, erano incapaci di aprirsi alla novità di Dio.

Il Vangelo sottolinea così le difficoltà della prima domenica cristiana: coloro che erano stati con Gesù non riuscivano a sperare. Può sembrare strano: che cosa di meglio potevano aspettarsi gli apostoli, di fronte al dramma della perdita del Maestro, se non di riaverlo ancora con loro? Che cosa potevano augurarsi, nella desolazione abissale in cui erano caduti, se non di essere rincuorati da un messaggio consolatorio? Eppure il loro pessimismo incredulo può dire qualcosa anche a noi; anzi, dobbiamo ringraziare gli apostoli di aver voluto attestare nei Vangeli queste loro debolezze. Siamo loro grati perché la tentazione della sfiducia può toccare, specialmente nei momenti avversi della vita, anche coloro che da lungo tempo si sono messi alla sequela di Gesù.

Ne ho parlato più volte con Papa Francesco, anche di recente, a Carpi, utilizzando la stessa immagine che gli apostoli avevano davanti agli occhi in quei giorni, quella del sepolcro chiuso, e dicendo che “di fronte ai grandi ‘perché’ della vita abbiamo due vie: stare a guardare malinconicamente i sepolcri di ieri e di oggi o far avvicinare Gesù ai nostri sepolcri. Sì, perché ciascuno di noi ha già un piccolo sepolcro, qualche zona un po’ morta dentro il cuore: una ferita, un torto subito o fatto, un rancore che non dà tregua, un rimorso che torna e ritorna, un peccato che non si riesce a superare. E’ strano ma spesso preferiamo stare da soli nelle grotte oscure che abbiamo dentro, anziché invitarvi Gesù; siamo tentati di cercare sempre noi stessi, rimuginando e sprofondando nell’angoscia, leccandoci le piaghe, anziché andare da Lui che dice: “Venite a me, voi che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Due sono pertanto le scelte di vita che il Papa propone: tenere per noi oppure condividere col Signore. Condividendo, anche le zone più oscure vengono attraversate dalla sua luce e le croci possono trasformarsi in risurrezioni; al contrario, isolandoci e rinchiudendoci in noi stessi, rimarremo solo al buio. Un Dottore della Chiesa, san Roberto Bellarmino, ha basato su questa alternativa il senso stesso della vita cristiana, scrivendo così: “Comprendi che sei creato per la gloria di Dio… Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore… Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare. Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli né fuggirli per se stessi. Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna. Sono cattivi e da fuggire se la ostacolano”. E’ un principio radicale ma autenticamente cristiano: la qualità della nostra vita non dipende in ultima analisi dalle circostanze a noi favorevoli o avverse, nemmeno dal successo e dalla salute, come dicono in tanti. Per i discepoli del Risorto, il bene della vita è rimanere col Signore della vita, il male allontanarsi da lui. Perché per chi ha incontrato il Risorto, non c’è più notte che non sia attraversata dalla luce, desolazione in cui non siamo consolati, peccato in cui non siamo perdonati, morte che non si trasformi in vita. Qui si gioca la nostra fede, che non consiste tanto nel credere che Dio esista – lo sa pure il diavolo – oppure che Gesù sia morto in croce – è un dato di fatto inconfutabile – ma nel fatto che per me, per noi, Gesù è il vivente risorto, il Signore, Colui che ha vinto il peccato, la paura e la morte. Questa è la sorgente zampillante della nostra fede pasquale, alla quale abbeverarci ogni giorno. Ad essa la Chiesa si ravviva, mentre allontanandosene, per dissetarsi altrove, perde di freschezza, va fuori strada. Proprio a questo proposito, un padre antico, sant’Isacco di Ninive, scrisse una cosa interessante, affermando che “il più grande peccato è non credere nelle energie della Risurrezione”.

Ecco l’invito del Vangelo di oggi, che quasi alla chiusura liturgica del grande giorno di Pasqua ci esorta ad affrontare le tentazioni concrete dell’incredulità, della chiusura e della paura che insidiano il cuore della fede. Permettetemi al riguardo un secondo riferimento al Santo Padre, il quale mi sembra sia andato a cogliere la radice di questo atteggiamento di rifiuto nei confronti della consolazione cristiana. Ha affermato, nel corso di un Angelus, che “è curioso, ma tante volte abbiamo paura… di essere consolati. Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista! E’ lui che ci consola, che ci dà il coraggio di uscire da noi stessi. E’ lui che ci porta alla fonte di ogni vera consolazione, cioè il Padre. E questa è la conversione”.

Anche gli apostoli si sentivano a modo loro protagonisti nella tristezza, blindati nel loro cenacolo, impermeabili alle parole consolatorie di Maria Maddalena e dei discepoli di Emmaus. Ma c’è stata una svolta, iniziata quando Gesù in persona si è presentato nonostante le loro porte chiuse, e culminata solo quando hanno ricevuto lo Spirito il giorno di Pentecoste: allora da inconsolabili sono diventati consolatori, da sfiduciati coraggiosi, da timorosi testimoni. Lo vediamo nella prima Lettura, dove ritroviamo gli apostoli dopo Pentecoste: “Persone semplici e senza istruzione”, evangelizzano facendo rimanere gli anziani e gli scribi stupiti e incapaci di replicare. Ecco la conversione, accaduta non in virtù delle loro forze o delle loro convinzioni ma per opera dello Spirito Santo. Perché solo “lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti”, fa vivere e rivivere la fede nei cuori. Ciò che lo Spirito, donatore di vita, abita, viene risuscitato; ciò che non abita rischia di narcotizzarsi.

Lo Spirito ha reso gli apostoli capaci di attuare il comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”. Vorrei far notare un particolare: Gesù ha inviato con queste parole i discepoli subito dopo averli rimproverati per la loro incredulità. La loro poca fede, i loro sbagli e le loro paure non hanno impedito a Gesù di fidarsi e di mandarli. E’ un grande incoraggiamento anche per noi che constatiamo, come Chiesa e come singoli cristiani, quanto la pochezza della nostra fede abbia aumentato la tiepidezza di molti e ostacolato tanti nell’incontrare Gesù. Ma ci conforta sapere che Dio crede in noi più di quanto noi crediamo in noi stessi e nella forza dello Spirito ci invia a evangelizzare con la vita, a testimoniare non sulla scorta di strategie complesse e articolate, ma sulla forza limpida e umile dell’amore a Dio e al prossimo.

Le letture, infine, suggeriscono due condizioni per essere buoni evangelizzatori: la prima è quella di non basarci sulle nostre forze e di non arroccarci su ostinate convinzione umane, per lasciarci piuttosto docilmente plasmare dallo Spirito, senza cui “nulla è nell’uomo”. Vi è però una seconda condizione perché l’evangelizzazione dia frutto: portarla avanti insieme. Gesù nel Vangelo, rivolgendosi ai suoi, parla infatti al plurale: “andate”, “proclamate”! Non sarà efficace una testimonianza fatta ciascuno per conto proprio. Il Signore ci vuole Chiesa: anziché selezionare personale competente e specializzato, ha creduto nella comunità dei suoi apostoli e tramite quella comunità ha radunato, nello Spirito di unità, una comunione di popoli e lingue. Sentiamoci chiamati a creare vincoli e spazi di comunione, a non anteporre idee di parte al primato della comunione ecclesiale. Lo Spirito Santo ci aiuti a sostenerci a vicenda, in tutta umiltà, con la preghiera e con la carità fraterna.

La sorgente di questa comunione è qui, è l’Eucarestia. Insieme rendiamo grazie perché anche oggi si rinnova il grande prodigio: il Signore risorto si fa ancora una volta presenza viva per opera dello Spirito Santo. Ma lo stesso Spirito, come in ogni Messa, verrà invocato oltre che sul pane e sul vino, anche su di noi perché “ci riunisca in un solo Corpo”. La Chiesa, insomma, chiede allo Spirito di discendere due volte: dapprima sul pane e sul vino, perché divengano Corpo e Sangue di Cristo; poi sui presenti, perché formino un Corpo solo, la Chiesa. E questa seconda invocazione non è inferiore alla prima, anzi è pure più impegnativa perché, mentre il pane e il vino docilmente obbediscono all’azione dello Spirito, per noi essere pienamente uniti, in perfetta comunione, è molto meno facile: solo lo Spirito può operare questo grande segno.

Vi auguro che la partecipazione assidua alla mensa del Risorto vi renda sempre più evangelizzatori di comunione, profeti di unità in un mondo lacerato e diviso. Sentitela come una chiamata del Signore, un invito di Colui nel quale in questi giorni esultate, perché ha agito e manifestato la sua gloria.

Omelia pronunciata alla Convocazione del Rinnovamento nello Spirito di Rimini

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