Qualcuno racconta che il 24 agosto del 1992, nei pressi della strada che da Muiravale porta ad Aula, nel cuore del Mozambico, cadde un baobab. Nella credenza popolare, il crollo di un albero di tali dimensioni avviene in un solo caso: quando a lasciarci è qualcuno particolarmente gradito a Dio. E in quel tragico giorno, su quello sterrato costeggiato dalla boscaglia attorno a Namapa, una raffica di mitra aveva appena spento il respiro di fratel Alfredo Fiorini, missionario comboniano ma, soprattutto, medico dei poveri. La sua strada, fin lì, aveva attraversato le polveri dell'Africa, le stesse che aveva da sempre inquadrato nel proprio orizzonte di vita, diradate dal desiderio di consacrare se stesso all'aiuto dei malati dimenticati, negli occhi dei quali raccogliere “il segno di una vita totalmente offerta e di una morte radicalmente accolta”. Sono trascorsi 25 anni dal suo omicidio, messo in atto da una banda di guerriglieri razziatori in un luogo considerato ideale per un agguato. Quel che gli assassini non sapevano, però, è chi ci fosse alla guida della vettura attaccata e quanto fosse grave ciò che avevano fatto. Alfredo era caduto come cade un martire e, con lui, se ne andava una figura fondamentale per quell'angolo di Mozambico, colui che curava e che, spesso, salvava.
Le radici del sogno
La storia di Alfredo Fiorini è iniziata nella sua Terracina dove, assieme a lui, nacque e crebbe il desiderio di perseguire la strada degli studi in medicina. Il percorso intrapreso, incentrato sull'approfondimento di malattie infettive, fece subito comprendere come le sue prospettive fossero ben lontane dalla semplice esercitazione della professione in uno studio medico: “Alfredo è sempre stato un tipo controcorrente, ribelle – ha raccontato a In Terris suo fratello, Fabio -. Andava benissimo a scuola ma, nonostante il suo lavoro di ricerca all'università di Siena, si è capito fin da subito che non sarebbe stato uno studioso da tavolino. Durante il servizio militare in Marina, svolse il ruolo di ufficiale medico: probabilmente è in quel periodo della sua vita che capì quale sarebbe stata la sua strada, lontana dalla semplice esercitazione del ruolo di medico in città”. La sua città, sulle rive del Tirreno, era spesso punto di approdo dei missionari comboniani: “Lui strinse amicizia con uno di loro. Attraverso questa frequentazione, prese finalmente corpo il suo desiderio di partire iniziando, dopo la laurea, i primi viaggi di formazione. Al momento della sua uccisione era alla sua prima missione ufficiale”.
Finalmente in Africa
La prima volta che Alfredo parte per l'Africa è una persona già matura, perfettamente consapevole di dove stesse andando e di cosa lo aspettasse: “Lui le cose voleva cambiarle davvero. Quando era ragazzo l'Italia viveva una fase confusa e ricordo che, spesso, discuteva con mio padre di questioni politiche. In un'occasione, spiegando ironicamente il suo desiderio di fare il possibile per cambiare una società in cui non si riconosceva, mi disse una frase che non dimenticherò mai: 'O avrei fatto il brigatista o il medico missionario'. Lo disse usando il suo consueto tono scherzoso ma con quella battuta capii molte cose: lui sapeva perfettamente cosa significasse intraprendere la professione in Africa”. E in quelle terre Alfredo trova il suo scopo di vita: fra i poveri e i dimenticati emerge la sua vera vocazione quella che, qualora avesse deciso di concludere il percorso sacerdotale, non avrebbe potuto seguire appieno: “Ha studiato tutta la teologia e doveva solo ufficializzare il suo sacerdozio. Aveva però compreso che, se avesse terminato il percorso di diaconato, non avrebbe potuto svolgere pienamente la professione di medico. Si fermò un passo prima, restando fra i comboniani da semplice 'fratello' e dedicando tutto se stesso alla missione”.
Il medico di Alua
Dapprima in Uganda, poi in Kenya e, infine, in Mozambico, Alfredo percorre pienamente la difficile strada della medicina solidale, avviando il suo lavoro inizialmente in un ospedale statale: “In quella struttura la situazione non era semplice. Nel Paese c'era la guerra e le fazioni armate arrivavano spesso a compiere razzie. In un contesto politico come quello del Mozambico di allora, per una persona come lui era facile farsi dei nemici. Nonostante fosse estremamente mite, avere a che fare con delle ingiustizie lo rendeva duro, diretto. Lui con le parole sapeva davvero colpire nel segno: alla sua maniera aveva messo in evidenza ciò che non andava in quell'ospedale e, molto spesso, è stato vittima di dispetti e sabotaggi”. Trasferitosi in una struttura molto più modesta ad Alua, gestita da due suore missionarie, Alfredo trova finalmente il modo di mettere a frutto la sua vocazione, diventando una figura di riferimento: “Io ho visitato quei luoghi – ha detto ancora Fabio – e posso assicurare che in quei contesti il medico è una persona importantissima, ammirata e rispettata. Alfredo ripeteva spesso che lì un medico deve saper fare tutto. Anche per questo la sua morte fu un colpo durissimo per tutta la comunità che gravitava attorno al presidio di Alua”.
L'eredità
Abbinando la professione medica all'umanità propria del suo essere, Alfredo aveva saputo coniugare nella sua figura tutte le qualità necessarie a incarnare lo spirito della missione: “Io penso che se fosse vissuto un po' di più la sua presenza in quella zona dell'Africa, così sofferente, sarebbe stata una grande ricchezza. Aveva avviato un progetto per far maturare la medicina sul posto ma non solo dal punto di vista delle cure: la sua idea era di creare una sorta percorso di riabilitazione spirituale che portasse il malato, una volta guarito, a sentirsi ancora accolto nella società. Purtroppo, dopo la sua morte quasi nulla di quello che aveva sognato è stato effettivamente realizzato. A Terracina, però, i suoi amici hanno fondato un'associazione che, attraverso la formazione di giovani sul posto, promuove e sviluppa la medicina in Africa”.
Come cade un martire
La notizia della sua uccisione fu accolta con incredulità e stupore. Con lui se ne andava non solo un medico ma una persona che aveva creduto nella possibilità di far rinascere l'Africa attraverso l'assistenza medica e spirituale. Restare a contatto con la sofferenza e gli strascichi della guerra civile non era stato un ostacolo al suo sogno di donare se stesso agli altri, in tutto e per tutto: “Quando visitai l'ospedale missionario ad Alua, percorsi la stessa strada sulla quale è stato ucciso: spostandoci nella vegetazione vicina, riuscivamo a sentire sotto i nostri piedi le ossa di coloro che erano rimasti vittime di esecuzioni sommarie da parte dei ribelli. La violenza non era cosa rara da quelle parti ma l'uccisione di Alfredo fu davvero una disgrazia: laggiù la morte un medico è considerata una tragedia. Negli anni mi sono persino arrivate alcune voci che volevano l'assassino costretto a fuggire in un altro Paese per scampare al linciaggio. Ma di queste dicerie non ho mai avuto conferma”.
Alfredo Fiorini è servo di Dio e la sua causa di beatificazione è in corso dal 1998. La prosecuzione del suo impegno in Mozambico, da parte della Comunità di Sant'Egidio, è il migliore esempio di quanto il suo sogno sia più vivo che mai. Il desiderio di consacrare se stesso ai dimenticati lo aveva realizzato la prima volta che mise piede in Africa, insegnando che l'amore autentico richiede innanzitutto la conoscenza della sofferenza altrui. Pochi mesi dopo il suo omicidio, le due fazioni in lotta firmarono quella agognata tregua che alleviò le ferite di un Paese distrutto, nel corpo e nello spirito. Una pace il cui merito è anche di Alfredo.