Oggi è festa per i papà. A loro sono dedicati bigliettini d’auguri, dolci e regali, proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la figura di San Giuseppe. Quest’ultimo è stato padre (putativo), e in quanto tale guida della sua (sacra) famiglia in una fase delicata e preziosa.
Quel ruolo di padre come guida che ha in San Giuseppe il modello, sembra però eclissarsi sotto l’influsso di una cultura che esalta il neutro e demolisce l’identità, che foraggia il permissivismo e nega l’autorità, che promuove l’individualismo contro la famiglia. Sull’importanza di riscoprire il ruolo che compete al padre e sulle conseguenze devastanti di una società senza padre, In Terris ne ha parlato con Paolo Ferliga, psicoterapeuta, scrittore e docente al liceo di Filosofia e Storia. È il fondatore di “Campo Maschile”, che – si legge sul suo sito – “si propone come luogo, fisico e simbolico, di ricerca-azione sull’identità maschile”
Dott. Ferliga, che vuoto lascia nella società l’assenza paterna?
“Terribile. È un vuoto che si presenta spesso nei sogni dei miei pazienti o nei racconti dei miei alunni. Secondo alcune ricerche come quelle di Robert Bly, negli Stati Uniti la maggior parte dei giovani che commettono crimini sono fatherless, ossia non hanno un padre o ne hanno uno negligente. Ciò impedisce lo strutturarsi della psiche umana in una norma etica: il padre, del resto, è il primo modello su cui costruire una legge interiore. E l’assenza del padre ha gravi ripercussioni sociali, perché il diritto non può supplire l’etica”.
Quando ha inizio il declino della figura del padre nella società occidentale?
“La crisi del padre ha radici antiche. Già la nascita della scuola – che naturalmente è un’istituzione molto importante – ha incrinato il rapporto familiare, perché ha tolto al padre la funzione primaria di insegnamento nei confronti del figlio. C’è stato poi l’avvento della società moderna: quando il padre entra in fabbrica, si allontana fisicamente e per gran parte della giornata dai figli. Per non parlare delle guerre mondiali, che hanno costretto un’intera generazione a rimanere separata per lunghi periodi dai padri”.
E l’avvento del ’68, con la sua critica a una società definita “patriarcale”?
“La contestazione del ‘68 nei confronti del padre cela, tuttavia, una sorta di richiesta di aiuto nei confronti del padre da parte di figli disorientati dalla mancanza di etica. Dal movimento giovanile si è levata una domanda: “Papà, ci sei?”. Purtroppo i padri di allora, già assorbiti dall’edonismo di massa, non hanno risposto. Questa mancanza ha provocato quindi delle degenerazioni, la critica verso l’autoritarismo si è trasformata in critica verso l’autorità ed è talvolta sfociata nel terrorismo, accelerando una crisi della figura paterna che, come dicevo, ha radici più antiche”.
Giorni fa, in occasione dell’8 marzo, si è assistito a cortei e slogan femministi. La recrudescenza del femminismo radicale mette in pericolo l'identità maschile e quindi la figura del padre?
“Il femminismo radicale coinvolge una piccola minoranza di donne. A parte questi episodi cui le fa riferimento, nel movimento femminista esistono realtà importanti che valorizzano la differenza di genere. Il problema però esiste, ma è da attribuire principalmente agli uomini stessi: sono loro che evidenziano spesso una debolezza psicologica, una subalternità che nella società dei consumi è sempre più lampante. Sembra che i maschi abbiano una certa timidezza nel riconoscere la propria identità sessuale. Invece, è opportuno che gli uomini rivalutino l’importanza della loro mascolinità. L’equilibrio nel rapporto tra uomini e donne, che insieme formano una famiglia, verte su identità ben precise, non sulla confusione della neutralità sessuale”.
Oltre all’assenza fisica, specie con la diffusione della tecnologia personale si va registrando un’assenza mentale, con padri e anche madri spesso piegati sui tablet e distratti rispetto ai propri figli…
“È molto grave. Internet, che è utile per ampliare le conoscenze, nasconde il rischio di trasferire il nostro pensiero in realtà virtuali impoverendo così le relazioni umane. Se già nei decenni passati, la tv accesa a tavola era considerata un elemento destabilizzante per i rapporti familiari, l’avvento di tablet e telefonini ha aggravato la situazione. Per questo è fondamentale considerare che le relazioni umane passano non solo dalla mente, ma anche dal corpo. Noi siamo eredi del cristianesimo, che si fonda su un Dio che si è fatto carne. Dunque dovremmo essere ancor più capaci di valorizzare questo elemento. I padri devono preoccuparsi di ridare al corpo valore come luogo di incontro con i propri figli: se durante la settimana un padre è spesso fuori casa per lavoro, ha il compito di ritagliarsi del tempo nel fine settimana per giocare con i suoi figli, specie con i maschi, per fare sport insieme, per passeggiare o correre in mezzo alla natura”.
Perché ritiene che sia importante soprattutto con i figli maschi?
“Perché il padre trasmette ai figli maschi un sapere di cui solo lui può essere depositario in famiglia, che è quello legato all’istinto maschile. Per le femmine è più evidente per via delle prime mestruazioni, ma nella pre-adolescenza si sviluppa anche nei maschi un’energia che è un fatto nuovo, avvengono cambiamenti importanti dal punto di vista fisico e psicologico: essi richiedono un accompagnamento, una vicinanza da parte del padre. Anche questo significa porre al centro il corpo”.
Diversi studi negli ultimi anni stanno sottolineando l’importanza della figura paterna. È in corso una rivalutazione del ruolo del padre?
“Guardi, io ho scritto la prima edizione del libro Il segno del padre nel 2005 proprio perché, da psicanalista, avevo scoperto che c’erano decine e decine di volumi dedicati al ruolo della madre e pochissimi sul padre. Negli ultimi anni è cambiato molto: è cresciuta la sensibilità sulla funzione paterna, ho modo di vedere anche padri più presenti e attenti. Il bisogno profondo della società nei confronti della figura del padre sta finalmente emergendo, nonostante esistano centri di potere che tendono a svilirla”.
A cosa fa riferimento?
“La figura del padre impone dei “no”, dei sacrifici, come dicevo prima è fondata su un’etica. La società dei consumi, al contrario, ha bisogno di individui disposti sempre a dire di “sì”, ad accettare ogni proposta che il mercato offre. Per questo il consumismo o la “Grande Madre”, per usare un termine della psicanalisi junghiana, ha interesse a sopprimere il padre e con lui ogni regola, così che l’unica regola divenga il mercato. Come diceva già Pasolini, il consumismo richiede l’omologazione degli individui e arriva persino a promuovere figure genitoriali neutre. È in questo senso che si inseriscono tutti quei tentativi subdoli di sostituire, ad esempio, i termini ‘padre’ e ‘madre’ con ‘genitore 1’ e ‘genitore 2’. Si tratta però di strategie perorate da elite ristrette. Credo che la natura profonda delle persone comuni spazzerà via certi tentativi: le figure del padre e della madre sopravvivranno nei secoli”.
Lei è fiducioso, anche se le biotecnologie fanno passi da gigante. Sempre più figli sono concepiti in provetta, senza avere padri né madri…
“È un dato preoccupante, è vero. Il figlio è il prodotto di un atto generativo, non un oggetto. C’è bisogno anche di una battaglia culturale: lavorando per la mia ultima pubblicazione, una ricerca sulla fecondazione eterologa, ho scoperto che due grandi centri che fanno procreazione assistita finanziano le riviste più importanti sul campo. E queste ultime – guarda caso – producono poi lavori dai quali emerge che non c'è alcun problema per un bambino ad essere fabbricato in laboratorio. Comunque è sempre l’uomo che può decidere i limiti della tecnica, frenarne un uso irresponsabile: è qui che torna l’importanza dell’etica, della figura del padre”.