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Quale Turchia dopo il voto

Circa 50 milioni di turchi, in queste ore, si stanno recando alle urne per le elezioni presidenziali e parlamentari. Un momento decisivo non solo per la parabola politica dell'attuale presidente, Recep Tayyip Erdogan, ma per la stessa Turchia. Ce ne ha parlato Lorenzo Marinone analista del desk per il Medio Oriente e il Nord Africa del Centro studi internazionali. 

Con le elezioni anticipate Erdogan punta a consolidare il consenso e ad acquisire il prima possibile i nuovi poteri che gli verrebbero assicurati dall'ultima riforma della Costituzione. A quasi due anni dal fallito golpe è una sorta di match point…
“E' un passaggio cruciale, sia per la vicenda politica di Erdogan che per la storia contemporanea della Turchia. Indipendentemente dal loro esito con queste elezioni andrà a regime la riforma della costituzione approvata col referendum dell'anno scorso. Si tratta di una modifica profonda dell'ordinamento turco, che investe i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e i rapporti fra gli stessi. Chiunque vincerà godrà di una libertà di manovra senza precedenti in Turchia. Ataturk, per capirci, ebbe ampie prerogative di governo più per meriti sul campo che non in ragione di un impianto formale costituzionale. Va poi sottolineato un aspetto…”

Quale?
“La riforma mette a sistema le tendenze portate avanti dall'attuale presidente sin dall'inizio della sua carriera. Cioè una visione che fa della progressiva riduzione del ruolo dei militari in politica uno dei suoi pilastri. Si porrà quindi fine alla 'funzione di tutela' nei confronti delle istituzioni portata avanti dalle forze armate sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il panorama politico turco ne uscirà stravolto. E questo a prescindere e ben oltre quella che è la singola figura di Erdogan. Il fallito golpe del 15 luglio del 2016 ha rappresentato anche il tentativo dei militari di impedire che si andasse in questa direzione. Il progetto portato avanti da Erdogan, del resto, non nasce con la riforma della Costituzione, è stato portato avanti negli anni in modo progressivo. Oggi sta cercando di tirare le fila di questo discorso…”

Dietro il golpe, però, non c'erano solo i militari…
“Esatto. C'erano anche altre anime della Turchia, che non vedono di buon occhio sia l'accentramento di poteri operato da Erdogan sia quello che l'attuale presidente rappresenta. In parte sono personaggi legati a Fetullah Gulen, in parte settori dell'industria o laici legati all'età kemalista. Senza dimenticare il ruolo svolto dalla società civile”. 

Settori ancora vivi evidentemente. I sondaggi prevedono risultati non plebiscitari per Erdogan. Alcuni paventano un possibile ballottaggio. Due anni di purghe non hanno silenziato le opposizioni?
“Al golpe è seguito un duro giro di vite. Questo ha portato a due risultati: da una parte Erdogan è riuscito a silenziare una serie di ambienti che lo ostacolavano, dall'altra ha dato modo di unirsi a opposizioni sinora molto frammentate, divise e rigide da un punto di vista ideologico. Negli ultimi mesi queste hanno trovato la forza non solo di unirsi in coalizioni formali ma anche di avvicinarsi, mettendo da parte temi più controversi e concentrando la propria agenda elettorale su politiche da portare avanti in comune. Dal 2002 a oggi una cosa del genere non si era mai verificata. Resta, ovviamente, un'alleanza tattica, di comodo, finalizzata a impedire a Erdogan di compiere questo passaggio. Non è da escludere il fatto che l'attuale capo di Stato possa vincere le presidenziali senza, però, avere una maggioranza chiara in Parlamento. Questo, se da una parte non escluderebbe il rafforzamento di poteri in capo al presidente, dall'altra impedirebbe ai nuovi meccanismi istituzionali di funzionare correttamente. Già il fatto di riuscire a togliere la maggioranza a Erdogan per le opposizioni sarebbe un risultato importante. Si aprirebbe in quel caso una fase di instabilità simile a quella vista nel 2015, quando – fra crisi politica, terrorismo e l'aggravarsi della situazione in Siria – la tenuta istituzionale della Turchia ha vacillato. Oggi la situazione non è molto diversa…”

In che senso? 
“Il quadro interno non è stabile. Il Pkk continua ad avere una presenza e la rete di infiltrazione dell'Isis nel Paese è ancora molto ampia, nonostante la repressione operata da Erdogan e la Siria resta uno scenario molto in bilico. Le premesse per una crisi, in caso di stallo politico, ci sono”.

Ha parlato di Fetullah Gulen e della sua rete. E' così esteso il fenomeno o il “gulenismo” è solo una scusa che Erdogan usa per giustificare le sue purghe? 
“La verità è nel mezzo. Mi spiego: è piuttosto probabile che l'etichetta di gulenista sia stata utilizzata per mettere a tacere chi non era sufficiente aderente alla linea dell'Akp di Erdogan. Non bisogna però dimenticare che la rete di Gulen era molto ratificata. L'organizzazione nasce come un network di scuole negli anni 70. Le persone che frequentano questi istituti continuano a frequentarsi dopo e vanno a svolgere le professioni più diverse. Di fatto si crea una rete di persone che si scambiano favori. Quando gli interessi diventano politici i gulenisti diventano uno strumento preziosissimo. Erdogan lo sa bene, anche perché è stato proprio grazie al network di Gulen (suo ex alleato) che è riuscito a vincere le elezioni nel 2002. Ma se il gulenismo è un enorme bacino di voti si capisce per quale motivo, nel momento in cui l'alleanza comincia a scricchiolare, la rete, per l'attuale presidente, si tramuta in un problema”. 

Anche quella di “terrorista” è un'etichetta cui il governo turco ricorre spesso quando deve operare un giro di vite…
“Proprio così. Pensiamo al caso curdo. Il Pkk e riconosciuto, non solo dalla Turchia, come un'organizzazione terroristica. L'Hdp, partito filocurdo di sinistra, è una formazione politica tuttora legale. Ma Erdogan, nel tempo, ha fatto in modo che venisse avvicinato al Pkk, spalmato sulle posizioni di quest'ultimo. Di conseguenza l'accusa di connivenza con il terrorismo è stata usata selettivamente per giustificare l'arresto dei suoi leader. Tra questi c'è Selahattin Demirtas, che corre per la presidenza dal carcere. La vicinanza all'Hdp è stata disincentivata proprio per il rischio di essere additati come terroristi”. 

Una netta affermazione di Erdogan completerebbe lo smantellamento della Turchia fondata da Ataturk?
“Non si può fare tabula rasa di quello che c'era prima. Erdogan stesso non ne ha la forza, anche perché Ataturk è una figura legata alla vita quotidiana dei cittadini turchi, sarebbe controproducente. Non a caso l'attuale presidente si rifà spesso, per motivi politici, al simbolismo lasciato in eredità da Ataturk. Detto questo, una netta affermazione consentirebbe a leader dell'Akp di realizzare il suo progetto politico-ideologico, ovvero una nuova sintesi. Il kemalismo è un nazionalismo laico. Quello che Erdogan vuole portare avanti è un connubio tra nazionalismo e islamismo. Non è una cosa nuova, di per sé, ma per la specificità della Turchia potrebbe uscirne fuori qualcosa di diverso rispetto ad esempio, all'esperienza di Mohammed Morsi in Egitto e a quella del partito Ennahda in Tunisia. Su questo nuovo assetto potrebbero incardinarsi gli equilibri politici, interni e internazionali della Turchia dei prossimi decenni”.  

Sarebbe una pietra tombale nel, già in parte compromesso, percorso di avvicinamento all'Unione europea?
“Sarebbe sicuramente un ulteriore elemento di rallentamento. Va però detta una cosa: è vero che alcune scelte di Erdogan hanno raffreddato i rapporti con Bruxelles, ma è altrettanto vero che all'interno della stessa Ue ci sono resistenze molto forti all'ingresso di un Paese musulmano, con una struttura politica e sociale difficilmente adattabile, secondo alcuni, all'indirizzo comunitario. Ciò premesso, il rapporto tra Ue e Turchia si è sempre aperto e chiuso a seconda dell'opportunità politica del momento. Quindi non è da escludere che, se la cosa fosse conveniente per entrambe le parti, questo processo possa ritornare in auge. Anche se un ingresso effettivo di Ankara nell'Ue continua a restare un'ipotesi piuttosto remota”. 

Sul fronte della politica estera i rapporti con gli Usa si sono raffreddati, mentre c'è una maggiore sintonia con la Russia di Putin. Resta confermata l'adesione di Ankara alla Nato?
“La Turchia si trova in una posizione geografica che ne ha determinato profondamente le scelte di campo. Ankara è stata portata nell'Alleanza Atlantica negli anni 50 in funzione anti-sovietica, per impedire a Mosca sia di espandere la sua influenza nei Paesi arabi, sia per toglierle un facile sbocco nel Mediterraneo. Il rapporti problematici con gli Usa riguardano in particolare la questione siriana. Se la Turchia non trova una sponda da parte di Washington, le relazioni fra i due alleati diventano complicate e rischiano di tornare in gioco anche alcuni aspetti dell'aderenza di Ankara alla Nato. E' stata proprio la mancanza di una sintonia con gli Stati Uniti che ha portato all'avvicinamento alla Russia. Non si tratta però di una scelta definitiva. Purché da parte dell'Alleanza e da parte degli stessi americani si riaprano alcuni canali”. 

 

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