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Asia Bibi: l'incubo è davvero finito?

La fiamma della speranza si è accesa, ma il lieto fine non è ancora stato scritto nella vicenda di Asia Bibi. Resta appeso a un fragile filo il destino della madre cristiana, arrestata in Pakistan nel 2010 con un’accusa di blasfemia e condannata a morte. Lo scorso 31 ottobre la Corte suprema l’ha assolta, ma soltanto dopo qualche giorno le autorità l’hanno potuta trasferire dalla città di Multan, dove è rimasta detenuta oltre nove anni, alla capitale Islamabad, a causa dei disordini provocati da estremisti islamici risentiti per la mancata esecuzione. Ora la famiglia della donna e il suo avvocato desiderano essere trasferiti, insieme ad Asia Bibi, in un Paese che possa offrir loro sicurezza. Tuttavia, la donna cristiana resta in attesa del giudizio di revisione della sentenza, chiesto dagli avvocati del suo principale accusatore. In Terris ne ha parlato con Mario Mauro, presidente di Popolari per l’Italia, già ministro della Difesa e vicepresidente del Parlamento europeo, che segue il caso dal 2010.

Asia Bibi è stata finalmente scarcerata e sarebbe pronta per espatriare. Le autorità del Pakistan hanno dato prova di civiltà e coraggio?
“Per non correre il rischio di dare interpretazioni semplicistiche, conviene fare mente locale sullo scenario pachistano. Quello del Pakistan è un caso forse unico al mondo, perché quelli che noi in Occidente chiamiamo fondamentalisti e terroristi, lì sono esponenti di gruppi politico-sociali che, in alcune zone del Paese, sono persino maggioritari. Essi esercitato un’enorme influenza sull’opinione pubblica facendo della discriminazione nei confronti di altre comunità religiose la chiave del proprio successo. Quindi questa criminalizzazione di Asia Bibi, che parte da settori influenti e coinvolge addirittura i bambini che sono invitati ad impiccarla, fa parte di una strategia ben radicata che deve la sua esistenza a dinamiche geopolitiche complesse”.

Si riferisce alle storiche alleanze occidentali del Pakistan?
“Il Pakistan è uno Stato nato da una divisione di carattere religioso: dopo la quasi guerra civile che ci fu nell’immediato dopoguerra, ottenne l’indipendenza dall’India grazie al sostegno dei Paesi di matrice anglo-sassone, in particolare degli Stati Uniti. Questi ultimi sono sempre stati alleati del Pakistan in chiave anti-indiana, per porre un freno all’Unione Sovietica e per dare una piattaforma militare per la resistenza afgana contro l’armata rossa. Questo asse che da Peshawar arrivava a Kabul ha prodotto però i mujahidin, tra i quali si distinsero volontari stranieri, in particolare sauditi come Osama Bin Laden. Dunque l’operazione nata nel Congresso statunitense per liberare quella parte del mondo dall’oppressione comunista, è diventata strumento per una saldatura di interessi e di legami ideologici tra predicazioni islamiche radicali”.

L’attuale Governo del Pakistan, tuttavia, sembra avere una matrice meno radicale…
“Nessuno può pensare di governare il Pakistan senza scendere a compromessi con questi gruppi fondamentalisti. Ne sa qualcosa la famiglia Bhutto, che ha pagato con una scia sanguinosa l’ostilità dell’Islam radicale”.

È questo il motivo per cui c'è voluto tanto tempo per l'assoluzione di Asia Bibi?
“Esatto. Bisogna dare merito alla Corte suprema pachistana, ma va ricordato che quegli stessi giudici hanno dovuto subito negoziare perché soprattutto un partito, Tlp, ha minacciato di mettere a ferro e fuoco il Paese. Il governo del Pakistan ha quindi dovuto accettare qualcosa che non rientra nelle procedure giuridiche, ossia un ricorso quando i ricorsi non possono più essere accettati”.

Bisogna dunque attendere una nuova sentenza prima di poter vedere Asia Bibi espatriata in un Paese sicuro?
“È encomiabile l’atteggiamento di alcuni settori della comunità internazionale, che si sono mobilitati offrendo cittadinanza ad Asia Bibi e alla sua famiglia per concedere l’espatrio, ma proprio per questo ricorso, al momento non è possibile farli partire”.

Cosa può fare ancora la comunità internazionale?
“Continuare a fare pressione. I Solzenicyn, i Siniavskij, i Sacharov, i Walesa non sarebbero mai tornati liberi senza una mobilitazione della comunità internazionale. Va detto che le mobilitazioni addotte contro Asia Bibi hanno un sapore ancora più totalitario di quelle della dittatura comunista, perché quest’ultima prendeva in ostaggio il popolo per giustificare le proprie azioni, mentre in Pakistan l’ostaggio è addirittura il nome di Dio per annichilire la persona umana”.

E il ruolo dell’Italia?
“Mi attengo a quanto ha dichiarato giorni fa il ministro Salvini, cioè che l’Italia sta lavorando ‘con discrezione’ in favore di Asia Bibi. Rimane il fatto che il nostro Paese ha buone relazioni con il Pakistan e che qualche estremista pachistano potrebbe rappresentare un pericolo”.

Cosa glielo fa pensare?
“Indagini della magistratura hanno delineato una rete logistica per pianificare gli attentati di Mumbay, in India, che parte da Brescia. E ancora: alcuni di quegli attentatori sono passati in Italia”.

Che epilogo si attende?
“Non è facile fare previsioni. Ciò che posso dire è che la vera vittoria sarebbe vedere Asia Bibi al sicuro, certo, ma nel proprio Paese. Finché la religione resterà un motivo di discriminazione, il Pakistan non avrà pace. Come diceva Giovanni Paolo II, la libertà religiosa è ‘la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani’”.

Quando nasce il suo interesse per la vicenda di Asia Bibi?
“Fin da subito. Ai tempi in cui ero vice-presidente del Parlamento europeo ottenni risoluzioni a favore di questa donna e contro la persecuzione dei cristiani. Divenni amico di Shahbaz Bhatti, l’ex ministro per le Minoranze cattolico che fu ucciso dagli estremisti islamici anche per il suo impegno a garantire un processo equo ad Asia Bibi. Fu una tragedia nella tragedia, fonte di riflessione profonda”.

Martedì in Campidoglio alle 14 ci sarà un presidio per Asia Bibi organizzato da CitizenGo. Lei sarà presente?
“Penso di sì. È un’iniziativa lodevole da parte di un’associazione, CitizenGo, che segue con costanza questo come altri casi di libertà religiosa violata. Come il loro, va ricordato l’impegno di Aiuto alla Chiesa che Soffre e tante altre organizzazioni, che si battono per tenere accesa la fiamma della speranza”.

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