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Un'oasi di pace nella guerriglia colombiana

Il 1° gennaio si celebra la 52ª Giornata Mondiale della Pace. Il tema scelto per l'edizione 2019,  “La buona politica è al servizio della pace”, punta i riflettori sui Paesi piagati da decenni di conflitti interni spesso sottaciuti, quando non espressamente negati, da quelle istituzioni che dovrebbero invece cercare di risolverli.

In Colombia, il sesto Paese più esteso dell'America Latina e il secondo più popolato, il “buon governo” di un gruppo di contadini locali ha concretizzato il sogno di un'oasi di pace in mezzo a un vero e propio conflitto armato tra varie fazioni che flagellano il Paese sin dagli anni '60. Le principali parti del conflitto erano inizialmente lo Stato colombiano e formazioni guerrigliere di estrema sinistra, in particolare le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e l'Esercito di Liberazione Nazionale (Eln). Negli anni Ottanta narcotrafficanti a capo dei cartelli della droga operanti nel Paese fondarono gruppi paramilitari per combattere la guerriglia, in certi momenti conducendo nel contempo una guerra aperta contro lo Stato (il cosiddetto narcoterrorismo).

Le Farc sono state un'organizzazione guerrigliera comunista della Colombia di ispirazione marxista-leninista nate nel 1964. Ufficialmente, hanno deposto le armi due anni fa; il Governo è tutt'ora impegnato per il reinserimento sociale degli ex guerriglieri. Il conflitto nasce dal tentativo di possedere il ricco territorio colombiano al fine di venderlo alle multinazionali (da un lato) oppure di sfruttarlo per le redditizie piantagioni di coca (dall'altro). In entrambi i casi, a rimetterci sono i contadini e i piccoli proprietari terrieri molti dei quali negli anni hanno perso le proprietà, divenendo sfollati interni, se non addirittura la vita in una delle tante purghe effettuate dai paramilitari. Secondo le Nazioni Unite, delle oltre 220mila vittime civili causate dai conflitti armati in Colombia, le Farc  sono responsabili del 12% del totale, con l'80% dei delitti commessi dai paramilitari di estrema destra e il restante 8% dalle forze governative.

In molte aree rurali del Paese – crocevia del traffico di uomini e merci (anche illegali) per il Centro e il Nord America attraverso Panama – lo Stato è quasi assente. Una terra di nessuno dove a comandare è colui che spara per primo. Eppure, una speranza sopravvive. E' la Comunità di Pace San José de Apartadò, nel dipartimento settentrionale di Antioquia, che da oltre vent'anni si adopera per la tutela dei diritti civili dei numerosi contadini locali nonostante la dura repressione subita dalle Forze Armate e dai gruppi paramilitari. 

La Comunità di Pace di San José de Apartadó è nata il 23 marzo 1997 ed ha affrontato 4 massacri ( 1999, febbraio e luglio 2000, 21 i febbraio 2005), 300 omicidi, almeno 5 sfollamenti forzati (1997, settembre 2001, giugno-ottobre 2002; 2003-2004; aprile 2005 dopo il massacro del 21 febbraio) ed oltre 900 violazioni ai diritti umani documentate, tra cui blocchi economici, calunnie, sparizione forzata, detenzioni arbitrarie, falsi positivi, furti. Ciò nonostante, la Comunità continua nella sua scelta non violenta di non rispondere alle armi con le armi, chiedendo invece giustizia al governo centrale e alla comunità internazionale per vie legali, dando esempio concreto di come ci siano alternative possibili di costruzione della pace dal basso in mezzo a un paese in guerra.

In Terris ha intervistato Marco Ghisoni membro della Comunità Papa Giovanni XXIII e operatore dell'Operazione Colomba – il corpo di pace dell'ApgXXIII – direttamente coinvolto nel programma di protezione dei membri della San Josè. 

Buongiorno Marco. Che cosa è la Comunità di Pace San José?
“E’ una comunità di famiglie di contadini che dal 1997, da 21 anni, cerca di resistere in modo non violento all’interno di una situazione molto molto violenta. Adesso con gli accordi di pace di 2 anni fa con le Farc si parla di “pace in Colombia”. Invece continuano a morire molti difensori di diritti umani, che siano elementi di spicco della comunità, sindacalisti, o semplici contadini che chiedono il diritto alla terra”.

Qual è il ruolo degli operatori dell’Operazione Colomba (Oc) all’interno della Comunità di Pace?
“Abbiamo aperto una presenza stabile di operatori dell’Operazione Colomba nel 2008. Io stesso ho contribuito ad aprire questo progetto di presenza e attualmente continuo a seguirlo dall’Italia. L’ultimo viaggio in Colombia l’ho fatto quest’anno a marzo. All'interno, svolgiamo un ruolo di accompagnamento, di presidio, di sensibilizzazione, nonché di dialogo e – quando necessario – di denuncia tra i vari attori politici e territoriali. Denuncie che presentiamo anche a livello internazionale: in Italia e a Ginevra. Il tutto per proteggere l’incolumità e la sopravvivenza delle persone e della comunità stessa, molto esposta”.

Quanti operatori dell’Oc sono nel sito attualmente?
“Adesso ci sono tre persone che abitano stabilmente all’interno della comunità di pace e si occupano principalmente di accompagnare i leader da un paese all’altro per difenderli dagli attacchi armati”.

Gli operatori sono di aiuto all'incolumità dei locali?
“Sì perché la presenza di operatori internazionali funziona da deterrente a quanti sono interessati ad attaccare ed espropriare le terre della comunità. Quando arrivammo lì la prima volta, ci dissero: “Per aiutarci, voi dovete rimanere qui con noi. Sicuramente a voi non succederà niente di male e conseguentemente neanche a noi”. Inizialmente avevamo qualche dubbio, ma in questi 10 anni di presenza costante abbiamo sperimentato che era vero”.

Perché?
“Perché agli occhi dei gruppi armati e del Governo colombiano stesso noi dell’Operazione Colomba siamo degli osservatori internazionali, delle persone che possono raccontare quello che succede realmente anche in sedi istituzionali e internazionali, come a Ginevra. Perciò tutte le parti in gioco hanno l’interesse di presentarsi agli occhi del mondo come la “parte buona” del conflitto, quelli che dicono “siamo dalla parte della gente, dei diritti dei contadini. I cattivi Gli sono gli altri”.

Ed è vero?
“No, perché tutti hanno interessi molto forti su quel pezzo di terra e sulle sue risorse minerario, di cui il territorio è ricchissimo”.

Quanto è vasta la zona interessata?
“Difficile dirlo perché è una zona rurale formata da montagne e campagna, quindi i villaggi sono sparsi e a volte distanti tra loro. Ragionando in ore di cammino a piedi o a cavallo – poiché non ci sono strade – un villaggio può distare anche otto ore di marcia”.

Quali sono gli interessi e le ricchezze della zona?
“I vari gruppi armati sono interessati all’area perché è molto ricca. C’è un importante giacimento carbonifero che vorrebbero sfruttare per farci miniere a cielo aperto; anche il terreno potrebbe essere convertito alla coltivazione della coca; inoltre, è un territorio strategico dal punto di vista geografico perché non è molto distante dal confine con Panama. Le persone in viaggio devono passare in quella zona per arrivare in Messico o negli Stati Uniti. E’ un corridoio importante da controllare per i traffici illeciti di droga e armi”.

La Comunità di Pace come impiega i terreni?
“I terreni sono coltivati a cacao. È famosa perché lo coltiva con criterio equo solidale e biologico all’interno di quella che può essere definita una guerra”.

Per tale motivo la Comunità di Pace di San José de Apartadó lo scorso novembre ha vinto il premio “Prophetic Economy Award 2018”
“Sì, si tratta di un evento organizzato da varie Associazioni con l’obiettivo di riunirsi e riflettere assieme su quali modelli economici alternativi adottare per poter raggiungere uno sviluppo umano integrale. Il premio è stato ritirato dal rappresentante legale Germán Graciano che è anche la persona più esposta e minacciata. Il nostro compito come Operazione Colomba è di accompagnarlo nei vari viaggi e di non lasciarlo mai solo. Sia lui, sia i membri del consiglio interno: la Comunità ha infatti un consiglio formato da 8 persone, tutte molto in vista e in pericolo di vita”.

Come è iniziata la collaborazione tra Oc e Comunità di Pace San José?
“E’ iniziata nel 2007 quando uno dei rappresentanti è venuto in Italia per raccontare la realtà del luogo e le problematiche presenti. Da lì, siamo stati invitati a visitare di persona e siamo rimasti nella comunità un mese con un viso turistico. Nel febbraio del 2009 è iniziata la presenza stabile e il servizio di accompagnamento”.

Come sono i rapporti con le autorità locali?
“Molto delicati. Vogliamo comunque tenere un dialogo aperto sia con gli esponenti dell’esercito, sia con quello delle istituzioni. Rapporti che la Comunità ha chiuso da tempo perché li accusa – e ci sono le prove – che alcuni dei massacri subiti in passato sono stati perpetrati con l’appoggio dei militari. Noi dell'Operazione Colomba invece temiamo aperti i canali di comunicazione ma dove ci sono violazioni dei diritti umani, li denunciamo”.

Come è cambiata la situazione da quando le Farc hanno deposto le armi?
“La situazione è rimasta complessa. Da un lato alcuni hanno smobilitato e hanno lasciato le armi. Ma questo ha creato dei vuoti di potere per i quali altri gruppi si danno battaglia. Poi altri ex guerriglieri ancora non hanno deposto le armi ma sono diventati dei cani sciolti, al servizio di chi li paga. Inoltre, alcuni di quelli che si erano smobilitati hanno visto che i programmi di reinserimento tanto proclamati dal governo non erano efficaci come promesso e perciò hanno ripreso le armi”.

Quali sono i gruppi interessati al vostro territorio?
“Sono un universo di gruppi che noi chiamiamo paramilitari: sono composti sia da mercenari al soldo di multinazionali (direttamente o indirettamente) oppure narcotrafficanti”.

Hanno avuto l’appoggio del governo centrale?
“In alcune occasioni sì, situazioni che sono state denunciate e provate negli anni. In Colombia ci sono nove milioni di sfollati interni a causa della lunga guerra interna, molti dei quali vivono nelle periferie di Bogotà. Questa è la fine che vogliono evitare di fare i membri della Comunità di San Josè: non vogliono perdere le proprie terre, ma al contempo, neppure imbracciare le armi: la loro è una resistenza pacifica e un grande esempio di scelta non violenza in una situazione pesantemente armata. Proprio per questa sua scelta coraggiosa, la Comunità di San Josè è nota a livello internazionale ed è di esempio per molte altre realtà nate e cresciute in Colombia – una cinquantina – e in Sud America, ma anche in altri posti flagellati da guerre civili”.

Quali sono le specifiche della comunità?
“Protegge le persone e il territorio dando spazio alla creatività. Sta creando un mondo alternativo, nuovo, sia nel rapporto tra persone e persone, sia nel rapporto con la terra e l’ambiente. Inoltre, hanno organizzato una scuola interna perché il ministero non mandava insegnanti che però è molto diversa da quella statale perché non segue i programmi di studio ministeriali. Si fonda sui principi della comunità: solidarietà, rispetto della natura, teoria ma anche e soprattutto pratica sul campo”.

Che tipo di coltivazioni insegnate?
“Quella biologica: il cacao ha la certificazione bio ed equo e solidale. Hanno come principio quello di coltivare tutto ciò di cui hanno bisogno, dal cibo ai rimedi naturali. Perché uno dei meccanismi della guerra è stato tagliare viveri e medicine alla popolazione. Coltivano riso, mais, fagioli tutto quello che consumano e il cacao destinato all’esportazione, sia interna (nei mercati di Bogotà) sia in Europa”.

Attraverso i canali dell’equo e solidale?
“Sì, loro hanno un rapporto commerciale con la Lush, un’azienda di cosmetici britannica che acquista il cacao per i propri cosmetici naturali – saponi, olio per massaggi – dalla Comunità di Pace. Inoltre, da poco tempo, anche in italia attraverso il circuito equo e solidale grazie a una cooperativa di Modica, la Quetzal, che ha iniziato in questi mesi a distribuire delle barrette di cioccolato fatto con il cacao della San Josè”.

Hanno una vasta produzione di cacao?
“È sempre una grande sfida raggiungere i quantitativi richiesti. Però loro, che non fanno sfruttamento intensivo del territorio, comprano il cacao anche dai contadini vicini pur non appartenenti alla comunità. E la forza rivoluzionaria è che il cacao viene comunque pagato al prezzo giusto, vale a dire molto più alto rispetto a quanto normalmente le aziende e le multinazionali pagano ai contadini locali. Anche per tale motivo è importante che la Comunità di Pace, nonostante le continue minacce, continui a vivere”.

Questi contadini rischiano anche la vita?
“Sì. Perché sono soli, isolati. Quando cala il sole, si chiudono in casa per la paura: la polizia non viene, l’ambulanza non viene: una terra di nessuno, dove comanda chi ha le armi e lo Stato non c’è”. 

Come possiamo concretamente aiutarvi e aiutare la San Josè?
“Abbiamo una campagna di crowfunding sul sito “operazionecolomba.it” per il sostentamento della Comunità di Pace. E’ importante donare perché la San Josè è fatta di persone come noi e possiamo salvarla solo tutti insieme”.

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