Papa Francesco, in quasi quattro anni di pontificato, ha piĆ¹ volte affermato che la nostra societĆ vive una guerra mondiale āa pezziā che āprovoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalitĆ e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dellāambienteā. Lo stesso Bergoglio, nel messaggio scritto in occasione della 50ma Giornata Mondiale della Pace, afferma che la violenza ānon ĆØ la cura per il nostro mondo frantumatoā.
Davanti agli orrori della guerra, il Pontefice argentino, in piena comunione con il Magistero della Chiesa, propone un nuovo stile di vita: la nonviolenza. Per āi cristiani non ĆØ un mero comportamento tattico, bensƬ un modo di essere della persona, lāatteggiamento di chi ĆØ cosƬ convinto dellāamore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dellāamore e della veritĆ ā.
In questa prospettiva lavorano i volontari dellāOperazione Colomba, il corpo non violento della ComunitĆ Papa Giovanni XXIII, un progetto aperto a tutte quelle persone, credenti e non, che vogliono sperimentare lāunica via per ottenere una Pace vera, fondata sulla veritĆ , la giustizia, il perdono e la riconciliazione. Ne abbiamo parlato con Antonio De Filippis, Animatore Generale del Servizio Operazione Colomba.
Quali sono le origini del vostro impegno civile?
āLāOperazione Colomba nasce da un gruppo di obiettori di coscienza della ComunitĆ Papa Giovanni XXIII che durante il servizio militare, nel ā92, voleva verificare se effettivamente nei teatri diĀ guerra ci fossero alternative o meno a quella delle armi. A pochi centinaia di chilometri da casa nostra (la sede centrale della ComunitĆ ĆØ a Rimini, ndr) imperversava il conflitto in Jugoslavia. Con un gruppo di ragazzi siamo partiti per andare a vivere con le vittime di quella guerra, seguendo anche lāintuizione di don Oreste Benzi, sullo stesso fronte ma da entrambi i lati. Nelle case diroccate, nelle tende nei campi profughi. Imparammo che nelle guerre si puĆ² entrare, ma soprattutto capimmo che le vittime di oggi sono sempre piĆ¹ i civili, non piĆ¹ chi le combatte. Col passare del tempo, siamo diventati un organo internazionale riconosciuto. Al momento siamo presenti in molte zone del pianeta, in Palestina e Israele, in Colombia, e dal 2013 anche in Libia e Siriaā.
In cosa consiste lāoperato dei volontari?
āVivere con le donne, i bambini, gli anziani, insomma con chi non ĆØ riuscito a fuggire dalla guerra. La gente ci chiede di controllare le case, se sono crollate e, se stanno ancora in piedi, se sono agibili. Nel conflitto in Jugoslavia ci domandarono informazioni su amici e familiari che erano rimasti dallāaltra parte delle barricate. Montammo un ponte telefonico e ci impegnammo per portare messaggi da una parte e lāaltra. Anche il vescovo cattolico e quello ortodosso dellāepoca ci chiesero di fare da āmessaggeriā. Questo ci ha fatto capire che si poteva stare dentro una guerra, come civili, senza le armi. CiĆ² ĆØ molto importante perchĆ© aiuta i deboli a mettersi in contatto con la parte piĆ¹ forte, protegge le minoranze e, soprattutto, dopo il conflitto, costruisce relazioni grazie ad una mediazione tra le parti. Come dice Papa Francesco nel messaggio della 50ma Giornata Mondiale della Pace, āQuando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti piĆ¹ credibili di processi nonviolenti di costruzione della paceā. E noi lo possiamo confermareā.
La popolazione accetta il vostro aiuto? E lo Stato?
āLa popolazione sicuramente. In fondo sono dei disperati che subiscono una guerra. Sono i piĆ¹ vulnerabili, quelli che non sono riusciti a fuggire. Avere degli occidentali che vanno a vivere con loro e come loro, dentro le tende, ĆØ considerata una benedizione. Con i governi ĆØ diverso. Ci sono questioni politiche che impediscono un pieno svolgimento della nostra missione. Noi operiamo da entrambe le parti e non tutti i Paesi lo accettano. Soprattutto quando per entrare in determinati territori serve il permesso delle Istituzioni. Ma la nostra linea non cambia: siamo neutrali nel conflitto ma non verso le ingiustizieā.
In quali zone del pianeta cāĆØ maggior bisogno di intervenire?
āSicuramente in Medio Oriente. Tuttavia non ĆØ lāunica zona. Operiamo in molti territori e abbiamo bisogno di tanta gente, affinchĆ© questo modo di agire nonviolento cresca in maniera esponenziale. Ci sono tante attivitĆ come questa sparse per il mondo che non fanno notizia. Noi veniamo a conoscenze delle grandi figure come Mandela o Martin Luter King. Ma non sono le uniche. Abbiamo bisogno di un soggetto che le riunisca tutte e le faccia guardare insieme verso un unico obiettivo. Per questo noi ringraziamo tanto Papa Francesco. Se sulle strategia di guerra siamo allāavanguardia, sulla nonviolenza siamo totalmente āignorantiā perchĆ© siamo immersi in una cultura della violenza. Non possiamo guardare Sarajevo, poi Aleppo e poi aspettare la prossima. Dobbiamo intervenire prima. La nonviolenza non va predicata ma praticata. Con il Messaggio per la 50ma Giornata Mondiale della Pace, ĆØ la prima volta che la Chiesa produce un documento sistematico sulla nonviolenza. Mi auguro che continui su questa strada, e che sia solo lāinizioā.
Spesso la ānonviolenzaā viene intesa come resa, disimpegno o passivitĆ . Ć davvero cosƬ?
āGandhi e il Vangelo ci ricordano che bisogna pagare un prezzo se si vuole qualcosa di grande. La nonviolenza non ĆØ passivitĆ , anzi. Ć talmente forte che non provoca e non puĆ² colpire. Ć unāattivitĆ . Quando senti i contadini israeliani o colombiani, che hanno visto morire i propri cari davanti ai loro occhi, dire: āNoi non li odiamo. Sono vittime come noiā, capisci che sono un Vangelo vivente. Ci sono molti uomini che vivono la piĆ¹ alta delle esistenze, anche in posti sperduti del mondo. Ma non fanno rumoreā.
Nel Messaggio il Pontefice afferma che oggi i leader politici, religiosi e tutte le istituzioni necessitano di attuare una politica non violenta. In che modo?
āInnanzitutto dovrebbero istituire il Ministero della Pace. Allāinizio nacquero i Ministeri della Guerra. In prospettiva di un futuro migliore vennero mutati in quelliĀ della Difesa. Il passo successivo sarebbe, dunque, quello della Pace. In questo modo tutta la questione geopolitica verrebbe letta in una chiave diversa, ovvero quella del mantenimento e di implemento della Pace. Poi bisognerebbe mandare corpi civili nei territori dove impazzano i conflitti. Non solo. Anche corsi universitari dove si spiegano percorsi alternativi alla violenza. Non bisogna creare ghetti, ĆØ necessario essere inclusivi. Per dirlo con le parole di Bergoglio: āCostruire ponti e non muriā. Costruire ĆØ unāarte. Per innalzare muri ci vogliono pancia e genitali, invece fare ponti vuol dire mettere in gioco cuore e intelligenza, che sono le caratteristiche piĆ¹ alte dellāessere umano. Questo ĆØ il tempo per costruire ponti: tra di noi, tra Oriente e Occidente, tra le parti in lotta dove cāĆØ un conflittoā.
Concorda con le parole del Santo Padre quando afferma che questa āpolitica nonviolentaā ha radici ādomesticheā, ovvero nasce in famiglia?
āViviamo in un tempo in cui le parola pedagogia e istruzione stanno andando sempre piĆ¹ nel dimenticatoio. Lāuomo deve capire al piĆ¹ presto che questi concetti vanno recuperati altrimenti non avrebbe futuro. GiĆ durante il fidanzamento servirebbero corsi che educano alla nonviolenza. PerchĆ© i bambini imitano i genitori. Poi bisogna dare questa impostazione pedagogica basata sul dialogo e sullāamore. Soprattutto nellāadolescenza bisognerebbe impostare una comunicazione fatta di domande e di modi di fare, perchĆ© il linguaggio non verbale, quello dei gesti e delle azioni, ĆØ molto piĆ¹ eloquente delle parole. Si dovrebbe dare attenzione alle piccole cose, dallo stile di vita fino alla raccolta differenziata, senza trascurare il dialogo, tra genitori e figli, sui problemi del mondo. Ma tutto questo si fa solo curando lāanimo di noi stessiā.
Nellāincontro ecumenico sulla pace svoltosi ad Assisi, Bergoglio ha detto: āTutti possono essere artigiani di paceā. In che modo?
āBisognerebbe accentuare il volontariato, anche e soprattutto a scuola, affinchĆ© i giovani vengano a conoscenza delle realtĆ del proprio territorio. Noi adulti poi dovremmo invogliarli. Quando noi della ComunitĆ invitiamo i ragazzi a vedere come operiamo nei campi profughi, sentono che ĆØ una proposta viva. E accettano. Ma la scuola dovrebbe promuovereĀ anche dei corsi, e noi dellāOperazione Colomba lo facciamo. E dovrebbe essere un percorso di formazione che non dura solo un paio di anni, ma dovrebbe accompagnare i ragazzi per tutto lāiterĀ scolastico.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
āAl momento siamo in fase di riflessione. Lāidea ĆØ quella di inserirsi in altri conflitti, fare dei viaggi esplorativi per essere vicino a queste popolazioni. Stiamo discutendo poi sulla realizzazione di un ācartelloā che raccolgaĀ tutte le realtĆ che mettono in pratica la nonviolenza. Sono tantissime, ma non esiste uno studio su queste esperienze. Si dovrebbe creare un ponte che le colleghi, affinchĆ© davanti ad una futura Aleppo si possa contrapporre un messaggio che ĆØ piĆ¹ forte rispetto a quello dei poteriĀ che perpetuano la guerra. CāĆØ poi il progetto di coinvolgere i ragazzi del Servizio Civile per fargli visitare questi posti, facendo nascere in loro il desiderio di continuare a vivere lƬ per aiutare il prossimo, creando cosƬ dei nuclei da inserire in questi territori. Sicuramente continueremo a dare man forte alla Chiesa. Conosciamo tanti sacerdoti e vescovi, ma anche laici, che hanno contribuito a fermare guerre e poi sono tornati a fare il mestiere di prima. Questo ĆØ un patrimonio che dovrebbe essere messo insieme e tutelato perchĆ© ĆØ una vera e propria novitĆ . Vanno mandati in Siria non perchĆ© risolvono le cose, ma perchĆ© sanno cosa significa ācostruire pontiā. La pace non si improvvisa, si ottiene giorno per giorno dialogandoā.