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Willy, anima nobile che non ha accettato l’omertà a servizio dell’arroganza

Ergastolo, fra quelle previste dall’ordinamento italiano è la condanna più dura quella inflitta dalla Corte d’Assise di Frosinone ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto nel settembre del 2020 a Colleferro.

“Giustizia è fatta” è stato il commento unanime dell’opinione pubblica italiana, rimasta scioccata dall’inaudita violenza del pestaggio eseguito dai fratelli Bianchi e da Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. La violenza gratuita che si è scagliata contro il ragazzo di origini capoverdiane, “reo” di aver difeso un amico, ci ha ricordato che bastano 50 secondi di furia omicida per spezzare la vita di un giovane.

Credere che tutto torni in ordine con questa sentenza ci illude che la società trovi il suo equilibrio tramite la magistratura e la giustizia terrena, il carcere e l’esperienza punitiva. Sappiamo bene che così non è, perché l’identikit del branco proveniente da Artena è riscontrabile tra altre decine di migliaia di ragazzi italiani che trovano nella prepotenza, nei soprusi e nella violenza i codici della loro affermazione. Il corpo scolpito e tatuato, la passione per le arti marziali più estreme e le risse precedenti, l’esibizione sui social di vestiti buoni e serate in locali costosi. Nulla di più scontato e simile a quella che è la vita del bullo tipico di provincia.

La responsabilità è sempre personale e sarebbe inutile sminuire quanto è accaduto parlando del contesto sociale. Eppure sarebbe troppo facile spiegare quanto successo limitandosi a sbattere i “mostri” in prima pagina. I fratelli Bianchi sono il prototipo di una subcultura individualistica che mercifica anche il valore della vita, che insegna a non porsi mai limiti, ad esaudire qualsiasi desiderio passando anche sopra il cadavere del tuo prossimo. Vivere al massimo senza avere alcuna remora e rimorso. Si spera quindi che la sentenza dei giudici di Frosinone possa riportare il principio della responsabilità sociale delle proprie azioni al centro del dibattito pubblico. Non può esistere spazio per l’impunibilità quando c’è di mezzo la vita umana.

Dobbiamo sforzarci di cogliere degli insegnamenti dalla tragedia di Willy, che decise di mettere a rischio la propria vita pur di correre in soccorso di un suo amico. Troppe volte giriamo le spalle dall’altra parte quando siamo testimoni di un sopruso, troppe volte insegniamo ai nostri figli a “farsi agli affari loro” quando assistono ad una prepotenza, a tenersi “amico” il più forte, a chiudere tutti e due gli occhi quando la situazione lo richiede.

Il menefreghismo di sopravvivenza crea l’humus per altri dieci, cento, mille fratelli Bianchi che possono girare indisturbati con il loro sguardo spavaldo. Parlare di una tragedia annunciata non è quindi un eccesso, perché il clima di impunità porta a notti brave, a raid punitivi e pestaggi in piazza. Non si tratta di essere eroi, non serve buttarsi nella mischia o farsi giustizia da soli ma serve essere comunità, farsi prossimi al più debole, al bullizzato, credere nelle forze dell’ordine e denunciare chi tiene in ostaggio interi pezzi di periferia e di provincia della nostra Italia. Famiglie e scuole devono fronteggiare questa sfida se non vogliamo piangere altri animi nobili che non accettano l’omertà a servizio dell’arroganza.

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