Ci stiamo pericolosamente abituando all’orrore. Si rimuovono dalla coscienza aggressioni inaudite: una giovanissima ragazza fatta a pezzi, donne violentate e poi uccise, educatori schiaffeggiati o feriti perché svolgono il loro lavoro; giovani che impugnano le armi per uccidere i loro coetanei più deboli. E tuttavia mai si pone la dovuta attenzione alla sostanza dei fatti, gravissimi: tutto si risolve in discussioni di facciata, spesso sconclusionate, sempre disgiunte da valori profondi. Quando non intervengano appartenenze ideologiche tra loro omogenee per essere giustificazioniste. Ci si ferma, come purtroppo accade nei tempi che viviamo, all’esteriorità dei fatti, senza consentire a uomini e donne veri, padri e madri, figli e fratelli di entrare nel dibattito. Le fucine educative, della cultura e della formazione ai valori sono logorate, mentre il deserto dei principi e dell’etica corrode questo Paese.
La divisione scellerata tra ceti e razze, tra nazionalismi inutili e il pietismo generico provocano la delusione dei cittadini e il rancore tra i popoli. Si innescano processi sociali conflittuali e le tensioni deflagrano. Addirittura si misura una certa convenienza a cavalcare la cronaca nera e diviene penoso dover rilevare che si arriva all’istigazione dei deboli, a odiarsi e contrapporsi, in sostanza ad autodistruggersi. Intanto immigrati e italiani, cioè persone, si ritrovano nella stessa condizione di disperazione e vivono, pur se in modi diversi, la loro indigenza, la loro miseria, la loro solitudine. Stiamo crescendo un popolo di disadattati, nel quale adulti rancorosi trasferiscono ai giovani la sottocultura della paura e della diffidenza. Invano si registrano gli indici di fiducia delle persone nelle istituzioni – con lettera minuscola – perché non si vuole prendere atto del fatto che buona parte del nostro Paese non crede nel futuro. E così perfino i magistrati, le forze dell’ordine, i preti, la Chiesa stanno perdendo il ruolo che sempre gli è stato riconosciuto, quello di stabilizzatori sociali, capaci di ridurre il conflitto, ai quali affidarsi in qualità persone coscienti della propria debolezza individuale.
Fra gli altri soggetti tecnicamente sfiduciati si collocano i partiti politici che “infettano” addirittura la politica; quelli non danno mostra di capire la profondità della crisi e anziché costruire saldi modelli di riferimento sociali, economici e culturali, provano a comprare il consenso, chi con promesse di esonero dai propri doveri fiscali, chi con illusori redditi di inclusione, chi con elemosine generalizzate. Ma non è questo che la gente si aspetta. Per carità, non vanno sottovalutati né la povertà né la paura di cadere in uno stato di indigenza. Entrambe capaci di renderci egoisti e purtroppo pronti a credere alle favole. Vogliamo la verità. Vedete, spesso si è detto che la religione costituisca una sorta di oppiaceo. Invece oggi, ma direi sempre, essa apre gli occhi alle persone, le rende responsabili delle proprie scelte e soprattutto le lascia libere di scegliere. Se la politica non è in grado di conformarsi al vero allora essa ha bisogno non solo di nuovi interpreti ma di essere ricollocata tra gli strumenti dei quali l’umanità ha bisogno per stare insieme in pace e in fratellanza.
Chi si candida a governare il Paese deve dirci – quale che sia il partito di appartenenza – cosa vuol fare per noi tutti, per ciascuna delle funzioni che saranno loro assegnate dagli elettori: non con programmi generici e fumosi ma con rappresentazioni trasparenti e concrete che gli italiani hanno dimostrato di capire bene. Altroché rimbecilliti! Gli italiani hanno tutti gli strumenti di cultura, di storia, di responsabilità personale per scegliere chi sarà in grado di rilanciare il Paese e di farlo tornare nel posto che gli compete a livello internazionale. Basta con gli slogan.
Il degrado sociale e la perdita dei valori ci debbono interpellare collocandoci con rispetto reale dinanzi a chi soffre. Il dolore non deve essere mercanteggiato dai partiti e i conflitti sociali devono essere mediati da operatori di pace. Lo Stato deve fare la sua parte e per questo la Giovanni XXIII di don Benzi, di cui mi onoro di far parte, sta ovunque proponendo l’istituzione di un Ministero della Pace, perché è tempo di lavorare per unire e non per spaccare. L’impegno primario deve essere quello di coltivare la Pace, di provocarla già all’interno delle scuole, in tutte le agenzie educative, ovunque ci sia un’aggregazione socio culturale. Occorre organizzare la Pace. Noi non possiamo più permetterci di far finta di non capire che non c’è altra speranza se non la formazione di una cultura della “nonviolenza”, dove l’altro non sia mai percepito come un pericolo bensì come un’originalità. Solo l’accogliersi vicendevolmente può riportare serenità, costruendo i ponti di cui Papa Francesco incessantemente invoca l’edificazione, offrendosi come esempio vivente di Pace. La diversità sarà sempre vita, mentre la divisione porterà solo all’isolamento, ai ghetti e alla morte. Ci vuole fermezza per ricostruire un tessuto sociale logorato e sfiduciato. Il coraggio grava su tutti noi, basta solo avere la forza di riconoscerlo e di praticarlo.