C’è odore di stantio, per non dire di vecchiume: flat tax, migranti, persino il matrimonio egualitario non sono più idee che riescano a suscitare non si dica interesse, ma anche uno sguardo seppur indignato. Troppo scontato, la gente si annoia. La campagna elettorale più stralunata della storia repubblicana procede senza riuscire a decollare. La chiusura delle liste del Pd e la stesura del programma del centrodestra potevano darci delle serie indicazioni, invece le prime certificano le difficoltà dei democratici ed il secondo la mancanza di idee del patto tripartito attualmente in testa in tutti i sondaggi. Tanto che, a dominare il dibattito in questo primo scorcio agostano, è stata una falsa questione come quella della riforma in senso presidenziale del nostro ordinamento costituzionale.
Essendo falsa, nel senso di avulsa dalla realtà dei bisogni del Paese, la questione è anche tremendamente seria: da anni si procede con il picconamento della Carta, vuoi nel nome del politicamente corretto, vuoi nel nome del populismo. Primo esempio: la abolizione dei differenti requisiti anagrafici nell’elettorato attivo e passivo tra Camera e Senato per cui abbiamo ora il bicameralismo più perfetto possibile, cioè il contrario di cui si aveva bisogno; secondo esempio: la riduzione sconsiderata e senza contrappesi del numero dei parlamentari. A quest’eccesso di improvvide iniziative ora il centrodestra risponde con un errore uguale e contrario.
Il sistema presidenziale, in sé, non è negativo. È semplicemente poco adatto ad un Paese come l’Italia, sensibile anche troppo com’è ai richiami dell’Uomo della Provvidenza. Le vicende degli ultimi anni ce lo dimostrano, da Renzi a Salvini persino a Monti e Grillo con i suoi Associati: siamo fin troppo disponibili ad innamorarci per rimanere tremendamente delusi nello spazio di un mattino. Se avessimo il presidenzialismo, saremmo rimasti almeno quattro volte legati per anni ad un leader che non suscitava in noi alcun tipo di fiducia. Per di più viviamo una fase politica in cui c’è bisogno di coesione più che di divisione, di mediazione più che di rottura, e l’uomo solo al comando non favorisce certo l’idea che si debba uscire insieme dai problemi: da Berlusconi in poi siamo stati anche troppo malati di leaderismo.
Per arrivaci, al presidenzialismo, ci vorrebbero all’incirca tre anni: auguriamo a qualsiasi maggioranza esca vincitrice dalle urne di durare tanto, ma francamente nutriamo qualche dubbio a riguardo. Inoltre facciamo notare che, in fin dei conti, una riforma in cui un uomo e un partito decidono tutto sulla base dell’investitura popolare è stata bocciata di recente, con il referendum del 4 dicembre 2016. Matteo Renzi, che non a caso ha aperto oggi alla proposta di Giorgia Meloni, sta lì a dimostrare con il suo declino politico che certe idee non sono esattamente nelle corde dell’opinione pubblica.
La quale opinione pubblica si aspetterebbe piuttosto ben altre idee e ben altre proposte. Non perché sia di gusti difficili e di palato fine, semmai è il contrario: i bisogni reali sono più semplici per non dire elementari. Ma non per questo possono essere ignorati. La guerra in Ucraina fa schizzare le bollette, la lunga e strisciante crisi del modello iperliberista impone che si cerchino nuove formule di carattere sociale ed economico. C’è qualcuno che questo sforzo lo sta facendo, ma abita dall’altra parte dell’Oceano, a Washington. Prima che l’onda arrivi da noi ce ne vorrà.
Sicuramente l’onda non arriverà prima del 25 settembre, e allora passeremo questa campagna elettorale ad accapigliarci su false questioni, che onnubilano l’attenzione delle menti e sviano la riflessione dalla necessaria rifondazione culturale del nostro sistema. Ma abbiamo una classe dirigente per la maggior parte fatta da scarti del passato e cooptati del presente, più di tanto non si può pretendere.
Allora partecipiamo per un attimo anche noi al Grande Gioco delle Riforme, con una nostra idea: riformiamo, subito dopo le elezioni, questa orribile legge elettorale che la classe dirigente di cui sopra ha voluto preservare per interessi poco commendevoli. Un sistema proporzionale darebbe nuova linfa al sistema, favorirebbe l’emergere di nuove forme di partecipazione e selezionerebbe una classe dirigente legata, finalmente, al territorio ed in grado di pensare allo sviluppo del Paese. Ma essendo questi problemi veri, fa molto più comodo pensare al presidenzialismo.