La croce di Cristo è per il credente denuncia e vittoria sulla violenza, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e sfregiato nella sua dignità. La croce non è propriamente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte. Abbracciandola, Gesù la trasforma in atto d’accusa della violenza del sistema religioso-politico del suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato. Per la risurrezione, che non è compenso e riparazione dell’apparente insuccesso della morte di Gesù, ma l’affermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica ad ogni uomo la via che porta al trionfo sulla violenza e sull’odio. Con la crocifissione, Gesù assume su di sé anche la condizione di ogni persona ingiustamente condannata. Poiché Dio Padre si curva sul Figlio per accogliere il dono della sua vita e per eternarla nel dinamismo potente della risurrezione, la croce testimonia la solidarietà di Dio nei confronti di chiunque sia calpestato nei suoi diritti fondamentali.
Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, specie con il Battesimo e poi partecipando all’Eucaristia ‒ ove è celebrato il memoriale della passione del Figlio di Dio, che muore per redimere dal peccato e spezzare il circolo vizioso della violenza, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell’Amore-non violento. Nello stesso tempo è chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, attivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli oppressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, il “Servo sofferente”, perché siano guadagnati definitivamente all’amore, alla giustizia, alla pace. Gesù, nel suo incontro con l’umanità, ha guarito gli ammalati e i peccatori, ristabilendoli nella loro integrità e nella loro dignità. Non ha condannato il peccatore, ma con i suoi gesti e con le sue parole ha rivelato la violenza latente nei suoi interlocutori (i farisei, i sadducei, gli zeloti), riformulando sistematicamente le loro subdole domande e sollevando i veri problemi, per mettere i suoi detrattori di fronte alla loro coscienza. Ai suoi occhi la violenza nasce nel cuore e si esprime già nella parola. Il messaggio della pace e della nonviolenza nel Vangelo è connesso con l’annuncio e l’avvento del Regno di Dio.
Nella reinterpretazione della volontà del Padre fatta da Gesù, l’amore del prossimo non è circoscritto al “prossimo” più vicino, inteso come membro del proprio gruppo etnico, religioso e sociale. Come si è già considerato, dal giorno in cui Dio si è rivelato come un Padre, che ama e benefica i suoi figli senza distinzioni, i confini dell’amore si sono dilatati fino ad abbracciare il nemico. La formula della tradizione sacerdotale, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, viene portata a compimento da Gesù: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,43-45).
Attraverso questa nuova formulazione dell’amore tra gli uomini, che radica l’ethos della nonviolenza nel modo di agire del Padre e del Figlio, viene disinnescata alla base l’ideologia del nemico che, lungo la storia biblica ‒ e quella successiva cristiana ‒, ha giustificato l’eliminazione fisica dell’avversario. Non si tratta di amare il nemico continuando a considerarlo nemico, ma di amarlo, non trattandolo più come tale e cercando di trasformarlo in amico. L’abolizione della categoria di “nemico” non significa accettare l’ingiustizia, ignorare i conflitti. Si vuole, invece, attuare la giustizia nel suo significato più pieno, giacché il prossimo, come insegna lo stesso Gesù nella parabola del buon Samaritano, non è un essere astratto, ma reale, concreto, bisognoso di aiuto e di amore. A lui spetta l’amore misericordioso del Padre per rinascere come persona nuova ed essere pienamente se stesso, ossia figlio di Dio. Mediante il suo insegnamento, Gesù invita a rinunciare alla strategia della violenza per assumere quella dell’amore attivo e creativo. Propone la giustizia dell’amore ‒ una forma più alta della giustizia, che cerca di stabilire una corrispondenza fra delitto e castigo ‒, che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti comanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Mt 5,38-42).
Con queste parole, più che un codice di comportamento da seguire alla lettera, Gesù propone l’istanza dell’amore, che si esprime in forma creativa anche nelle situazioni più difficili di violazione dei diritti personali, come nel caso di insulti ingiuriosi, di espropriazioni dei beni personali, di requisizioni per la corvée pubblica o militare, di prestiti esosi e di oppressione dell’insolvente. Motivi o fini diversi possono indurre a rinunciare alla resistenza violenta come reazione alla violenza subita. Questa rinuncia può essere espressione di una protesta passiva e sofferta, può voler dimostrare una neutralità disinteressata, può infine essere una strategia di sopravvivenza di chi si sente sopraffatto e senza speranza. In tutti questi casi, non vengono presi in considerazione né l’atteggiamento né l’azione del violento: il suo predominio viene sopportato, tollerato o addirittura accettato. L’imperativo etico, espresso nei passi evangelici appena citati, si differenzia da queste tre forme. Il non violento non è né impotente né neutrale, ma si occupa amorevolmente del suo avversario. Mediante l’interruzione del circolo vizioso della violenza, questi può essere indotto a verificare e, infine, a modificare il proprio agire. Se il comandamento dell’amore per il nemico è cogente, allora la sua aggressività, non può esserci indifferente: l’uomo di pace non può rimanere inattivo in un ambiente violento.