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La vera pace nasce dal cuore

Foto di Christian Wiediger su Unsplash

La croce di Cristo è per il credente denuncia e vittoria sulla violenza, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e sfregiato nella sua dignità. La croce non è propria­mente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte. Abbracciandola, Gesù la trasforma in atto d’accusa della vio­lenza del sistema religioso-politico del suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato. Per la risurrezione, che non è com­penso e riparazione dell’apparente insuccesso della morte di Gesù, ma l’af­fermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica ad ogni uomo la via che porta al trionfo sulla violenza e sull’odio. Con la crocifissione, Gesù assume su di sé anche la condizione di ogni persona ingiustamente condannata. Poiché Dio Padre si curva sul Figlio per accogliere il dono della sua vita e per eternarla nel dinamismo potente della risurrezione, la croce testimonia la so­lidarietà di Dio nei confronti di chiunque sia calpestato nei suoi diritti fondamentali.

Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, specie con il Battesimo e poi partecipando all’Eucaristia ‒ ove è celebrato il memoriale della passione del Figlio di Dio, che muore per redimere dal peccato e spezzare il circolo vizioso del­la violenza, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell’Amore-non violento. Nello stesso tempo è chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, at­tivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli op­pressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, il “Servo sofferente”, perché siano guadagnati definitivamente all’amore, alla giustizia, alla pace. Gesù, nel suo incontro con l’umanità, ha guarito gli ammalati e i peccatori, ristabi­lendoli nella loro integrità e nella loro dignità. Non ha condannato il peccatore, ma con i suoi gesti e con le sue parole ha rivelato la violenza latente nei suoi interlocutori (i farisei, i sadducei, gli zelo­ti), riformulando sistematicamente le loro subdole domande e sollevando i veri problemi, per mettere i suoi detrattori di fronte alla loro coscienza. Ai suoi occhi la violenza nasce nel cuore e si esprime già nella parola. Il messaggio della pace e della nonviolenza nel Vangelo è con­nesso con l’annuncio e l’avvento del Regno di Dio.

Nella reinter­pretazione della volontà del Padre fatta da Gesù, l’amore del pros­simo non è circoscritto al “prossimo” più vicino, inteso come membro del proprio gruppo etnico, religioso e sociale. Come si è già consi­derato, dal giorno in cui Dio si è rivelato come un Padre, che ama e benefica i suoi figli senza distinzioni, i confini dell’amore si so­no dilatati fino ad abbracciare il nemico. La formula della tradi­zione sacerdotale, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, viene por­tata a compimento da Gesù: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vo­stri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate fi­gli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,43-45).

Attraverso questa nuova formulazione dell’amore tra gli uomini, che radica l’ethos della nonviolenza nel modo di agire del Pa­dre e del Figlio, viene disinnescata alla base l’ideologia del nemico che, lungo la storia biblica ‒ e quella successiva cristiana ‒, ha giustificato l’eliminazione fisica dell’avversario. Non si tratta di amare il nemico continuando a considerarlo nemico, ma di amarlo, non trattandolo più come tale e cercando di trasformarlo in amico. L’abolizione della categoria di “nemico” non significa accettare l’ingiustizia, ignorare i conflit­ti. Si vuole, invece, attuare la giustizia nel suo significato più pieno, giacché il prossimo, come insegna lo stesso Gesù nella parabola del buon Samaritano, non è un essere astratto, ma reale, concreto, bisognoso di aiuto e di amore. A lui spetta l’amore misericordioso del Padre per rinascere come persona nuova ed essere pienamente se stesso, ossia figlio di Dio. Mediante il suo insegnamento, Gesù invita a rinunciare alla stra­tegia della violenza per assumere quella dell’amore attivo e creativo. Propone la giustizia dell’amore ‒ una forma più alta della giustizia, che cerca di stabilire una corrispondenza fra delitto e castigo ‒, che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un mi­glio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti comanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Mt 5,38-42).

Con queste parole, più che un codice di comportamento da seguire alla let­tera, Gesù propone l’istanza dell’amore, che si esprime in forma creativa anche nelle situazioni più difficili di violazione dei diritti persona­li, come nel caso di insulti ingiuriosi, di espropriazioni dei beni personali, di requisizioni per la corvée pubblica o militare, di prestiti esosi e di oppressione dell’insolvente. Motivi o fini diversi possono indurre a rinunciare alla resisten­za violenta come reazione alla violenza subita. Questa rinuncia può essere espressione di una protesta passiva e sofferta, può voler dimostrare una neutralità disinteressata, può infine essere una strategia di sopravvivenza di chi si sente sopraffatto e senza speran­za. In tutti questi casi, non vengono presi in considerazione né l’atteggiamento né l’azione del violento: il suo predominio viene sopportato, tollerato o addirittura accettato. L’imperativo etico, espresso nei passi evangelici appe­na citati, si differenzia da queste tre forme. Il non violento non è né impotente né neutrale, ma si occupa amorevolmente del suo avversario. Mediante l’interruzione del circolo vizioso della violenza, questi può essere indotto a ve­rificare e, infine, a modificare il proprio agire. Se il comandamento dell’amore per il nemico è cogente, allora la sua aggressività, non può esserci indifferente: l’uomo di pace non può rimanere inattivo in un ambiente violento.

mons. Mario Toso: