“Non si può dare per carità ciò che è dovuto per giustizia”, ripeteva don Oreste Benzi. Parole quanto mai attuali in un’epoca contrassegnata da una crescente disparità globale tra i pochi che hanno molto e i tanti che hanno sempre meno. Oggi ricorre la Giornata mondiale della giustizia sociale e papa Francesco offre anche nella sua degenza al Gemelli un esempio concreto di ciò che significhi mettere gli altri al centro della vita personale e comunitaria.
Neppure le cure alla quali è sottoposto hanno distolto il Pontefice dalla premura di telefonare alla parrocchia di Gaza per conoscere la situazione dei piccoli assistiti in chiesa e in canonica dopo la distruzione delle loro case nel devastante conflitto in atto. Così come l’attenzione, la preghiera e la costante richiesta di informazioni hanno subito riguardato i bambini assistiti nello stesso policlinico romano nel quale Jorge Mario Bergoglio è stato ricoverato per una polmonite. Da paziente a paziente, da pastore a gregge perché nulla di ciò che è umano ci è estraneo.
La giustizia sociale, infatti, è un pressante anelito interiore di equità verso tutti e non un’astrazione o un’utopia. Nelle Scritture si parla di adempimento onesto e fedele di ogni dovere nei confronti di Dio. Ciò significa compiere la sua volontà. “La giustizia è una virtù da coltivare mediante l’impegno di conversione personale e da esercitare insieme alle altre virtù cardinali della prudenza, della fortezza e della temperanza”, insegna Francesco. Dall’Ucraina alla Terra santa il mondo intero sperimenta una crisi profonda, aggravata dai molteplici focolai di guerra che continuano a divampare in decine di nazioni.
“Può darsi che non siate responsabili per la condizione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla”, diceva Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il Magistero pontificio e la dottrina sociale della Chiesa testimoniano come ogni impegno per la pace implichi e richieda l’impegno per la giustizia. La pace senza giustizia non è una vera pace, non ha solide fondamenta né possibilità di futuro. Il filosofo Aristotele sostiene che “la giustizia ha a che fare con l’altro” e cioè è uno dei modi dell’incontro con l’altro, dell’essere in relazione con il prossimo. Il sommo teologo San Tommaso equipara la giustizia alla “volontà perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto”. Papa Francesco definisce la giustizia come la virtù che ci porta a riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta e rendergli la coscienza di sé e dunque la libertà.
Tra tutte le creature sottoposte ad asservimento le più indifese sono le vittime della tratta. Alla Comunità Papa Giovanni XXIII in diversi decenni di attività abbiamo liberato dalla strada e accolto migliaia di ragazze assoggettate al racket della prostituzione. Ogni settimana siamo presenti con le nostre unità di strada e molti volontari in tutta Italia e anche all’estero per incontrare e cercare di liberare le nostre “sorelline”, come le chiamava il nostro fondatore don Benzi. La giustizia sociale cammina sulle gambe di coloro che oltre a mettere la spalla sotto la croce della tratta spronano chi la alimenta a smetterla, affinché nessuna nostra figlia, sorella o madre possa essere venduta e sfruttata.
Non lasciare sole e liberare le “donne crocifisse” rafforza anche la nostra libertà interiore. L’imprescindibile condizione del manifestarsi della giustizia è infatti, la libertà quale primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini. E precondizione di quell’eguaglianza che risulta impossibile senza il riconoscimento della reciproca libertà. La giustizia si fonda, quindi, sulla costante autolimitazione e garantisce a ciascuno di essere sé stesso e di sentirsi libero. “Per costruire la nuova giustizia sociale dobbiamo ammettere che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata e ne ha sottolineato sempre la funzione sociale”, avverte Francesco.
Quando, ricorrendo alle leggi e al diritto, “diamo ai poveri le cose indispensabili, non diamo loro le nostre cose, né quelle di terzi”, ma “restituiamo loro ciò che è loro”. Ecco la via per assicurare la piena applicazione dei diritti fondamentali delle persone in condizioni di vulnerabilità perché non c’è giustizia sociale che possa fondarsi sull’iniquità o presupponga la concentrazione della ricchezza. La dignità è sconosciuta ogni qual volta i diritti umani vengano ignorati e violati. Lo squilibrio nasce proprio dalla tentazione di disinteressarsi dei più deboli. Da qui sgorga la vocazione di farci carico del dolore dell’altro per non scivolare verso una cultura dell’indifferenza.