Quello sui rifiuti è un argomento che negli ultimi anni ha raggiunto posizioni di primo piano nel dibattito nazionale e internazionale. Difesa del suolo, tutela dell’ambiente sono concetti che via via hanno trovato sempre più l’attenzione dell’opinione pubblica. Di conseguenza c’è stata da parte delle istituzioni una presa di coscienza del problema, ed ecco il via ai sistemi di raccolta differenziata, e la parola riciclare è diventata “d’ordine”.
Insomma, si tenta di arginare il processo a valle, ma non si prende in considerazione l’idea di intervenire a monte. Plastica e derivati sono ridondanti in tutte le catene della grande distribuzione; nei negozi, anche solo per un regalino veniamo inondati dai packaging il cui volume spesso è enormemente superiore rispetto all’oggetto stesso che contengono. Operazioni di marketing che durano giusto il tempo di scartare, e che poi diventano immediatamente rifiuti difficili da smaltire.
Stesso dicasi per le confezioni che contengono le bevande, gli alimenti, e così via… La questione non è quella di fermare il progresso, ma di definire cosa si intenda con questa parola. Tornare all’antico potrebbe essere una saggia soluzione. Il pianeta – di cui ha parlato bene Papa Francesco nell’enciclica Laudato sì, evidenziando come tutto sia intimamente interconnesso, e gli squilibri da un lato non possono che fare danni anche negli altri – non è infinito.
Da oltre mezzo secolo la produzione mondiale di plastica cresce di anno in anno. Nel 2013 ha raggiunto i 299 milioni di tonnellate, con +4% su base annua, e nel 2014 ha probabilmente superato la soglia dei 300 milioni di tonnellate. A fronte di questo, sottolinea Gaelle Gourmelon del Worldwatch Institute, ”il recupero e il riciclaggio restano insufficienti”, e così la plastica finisce nelle discariche e negli oceani. Nel dettaglio, stando al Programma ambientale dell’Onu, tra il 22 e il 43% della plastica usata nel mondo finisce in discarica. Tra i 10 e i 20 milioni sono invece le tonnellate di che ogni anno finiscono in mare, dove si stima che attualmente galleggino 269 milioni di tonnellate di plastica. Il 56% della plastica raccolta per il riciclaggio finisce in Cina, dove spesso viene lavorata in aziende a conduzione familiare sotto scarsi controlli di produzione ambientale, ad esempio sul corretto smaltimento di contaminanti e acque reflue.
Di contro in Germania è nato Original Unverpackt, e per ora si trova solo a Berlino. In questo speciale supermercato il cibo è venduto solo ed esclusivamente senza alcun tipo di imballo, i clienti si portano direttamente i loro contenitori e buste, prendono e pagano solo quello che acquistano e che effettivamente gli serve. All’interno del supermercato non vi sono i prodotti delle grandi marche ma solo alimenti di provenienza regionale e, nella maggior parte dei casi, biologica. Le fondatrici Sara Wolf e Milena Glimbovski, che l’hanno realizzato grazie ad una raccolta fondi, dicono che il merito è della crescente domanda di prodotti e servizi che si occupano di sostenibilità.
La produzione di materiali difficili da smaltire va dunque “alleggerita” là dove possibile. Riciclare poi va bene, perché il rimanente sarebbe riutilizzato, ma non può diventare una scusa per aumentare la produzione di scarti dal bell’aspetto. La china che abbiamo preso è estremamente pericolosa. A chi piacerebbe un mondo di plastica?