In piazza San Pietro e in tutte le cattedrali del mondo si celebra la 105esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato. L’attenzione al fenomeno migratorio che il Pontefice rivolge con una celebrazione solenne è il segno di quanto stia a cuore alla Chiesa il diritto di ogni persona ad essere accolta e riconosciuta e non scartata e umiliata.
Papa Francesco, argomentando il tema scelto per l’edizione del 2019 – “Non si tratta solo di migranti” – spiega che “si tratta anche delle nostre paure, della carità, della nostra umanità; si tratta di non escludere nessuno; si tratta di tutta la persona, di tutte le persone; si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo”. “Interessandoci di loro – aggiunge – ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista”. In questo modo il Pontefice richiama nuovamente all’attenzione degli Stati e dell’opinione pubblica la necessità dell’integrazione. Per accogliere efficacemente occorre integrare e dietro i flussi migratori ci sono persone in carne ed ossa. Ad ogni numero corrisponde un’identità.
Da bambina, nel lager nazista dove era stata internata, la senatrice a vita Liliana Segre riceveva la visita della madre che le ripeteva il suo nome affinché non lo dimenticasse. Ogni persona migrante ha una storia e una dignità. Il linguaggio, diceva il filosofo austriaco Wittgenstein, è la realtà perciò ha un profondo significato aggiungere la parola “persona” prima della condizione nella quale si trova, altrimenti diventa una schedatura, un’etichettatura come si fa con le merci. Non esistono i migranti, bensì le persone che migrano, né le vittime della tratta, ma le persone vittime di tratta. C’è poi da compiere un’indispensabile mutazione di prospettiva geopolitica. Il fenomeno migratorio è planetario e riguarda solo in parte lo spostamento di individui dall’Africa verso l’Europa. Nel mondo ci si muove soprattutto all’interno dell’Asia e dal sud al nord del continente americano. Non esiste un’emergenza specificamente legata all’emigrazione dall’Africa, le dinamiche sono globali. Di fronte a centinaia di milioni di persone che per varie cause (povertà, guerre, cambiamenti climatici, persecuzioni religiose, ricerca di un miglioramento del proprio tenore di vita) partono dal loro Paese d’origine, la soluzione non può essere una semplicistica accettazione del fenomeno.
Più che ribadire il diritto a emigrare, occorre favorire le condizioni per restare nella propria terra. Il vero diritto è quello di poter trovare nel luogo dove si è nati una situazione accettabile e gratificante di sopravvivenza e di progresso. Chi trova in patria le condizioni per condurre una vita dignitosa e libera non mette a repentaglio la propria esistenza avventurandosi in viaggi della disperazione che in troppi casi hanno esiti tragici. Di ritorno dal viaggio in Svezia il Pontefice, rispondendo in aereo alle domande dei giornalisti, ha posto la questione in termini di buon senso e lungimiranza. Quando un rifugiato “non è integrato”, c’è il rischio che venga “ghettizzato”, quindi “in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma serve anche la prudenza dei governanti che devono essere molto aperti a ricevere ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché per un paese è un’imprudenza ricevere più di quelli che può integrare”. Il Papa parla al mondo, sempre. Sul versante italiano, però, si può osservare che il problema migratorio non è affatto risolto, come qualcuno vuol far credere, con il cambio di maggioranza parlamentare. L’esecutivo che da tre settimane ha intrapreso la sua non semplice navigazione non possiede la bacchetta magica, quindi non sono giustificati i toni trionfalistici di alcuni commenti al limitato accordo raggiunto a Malta. La redistribuzione tra i Paesi dell’Ue resta su base volontaria e l’accoglienza delle persone sbarcate è ancora in capo alle Nazioni di approdo. Ricevendo il premio Carlo Magno per l’Europa fu proprio Papa Francesco a ricordare che un problema affrontato da 27 Paesi è risolvibile, lasciato alla responsabilità di due o tre Stati diventa un’emergenza. Chi inneggia oggi alla soluzione della questione rischia di fare la figura della cicala che poi, alle prime difficoltà, deve rimangiarsi il suo canto.