Non è certo usuale il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, dopo la pausa del mandato ottenuto nell’ultimo quadriennio dal democratico Joe Biden. Una simile circostanza segnala che il contesto interno agli Stati Uniti e quello esterno di questo evento hanno influito grandemente sul successo del tycoon.
Negli Stati Uniti sono aumentati i suoi consensi tra i lavoratori e la classe media delle aree urbane, sottratti ai democratici, ed è cresciuto il numero di voti per i repubblicani, persino nelle aree rurali, che erano tradizionalmente considerati feudi democratici. Già nella prima elezione si era notato uno spostamento, che ora si conferma con consensi maggiori da parte dei lavoratori, venendo meno il tradizionale apporto a favore dei democratici.
A questi si sono ora aggiunti anche i membri della classe media. Un cambiamento clamoroso che è potuto accadere per più motivi. Si sa che l’inflazione è sensibilmente aumentata e a pagarne le spese sono sempre i ceti meno abbienti. I salari vengono svalutati dall’aumento dei prezzi, l’agibilità dei prestiti alle famiglie viene intaccata da tassi d’interesse più alti, e la contrazione conseguente dei consumi interni agisce negativamente sull’economia. Ed è per questo che questi ceti hanno cambiato orientamento, percependo i democratici lontani dalle loro preoccupazioni, ormai interessati al mantenimento di un status quo che favorisce solo i ceti agiati e le big tech.
Potrà sembrare paradossale affidare il consenso al miliardario Trump, sostenuto da Elon Musk, supermiliardario di Tesla, e sostanzialmente favorito in campagna elettorale da Jeff Bezos, proprietario di Amazon, ma il risentimento per il tradimento è una brutta bestia. Sicuramente anche le frontiere delle libertà individuali, grandemente sostenute, contrapposte ai poteri sociali e politici, sono in continuo deperimento.
Indubbiamente, l’affermazione netta dei repubblicani al Senato e l’elezione presidenziale porteranno a importanti cambiamenti della politica interna ed estera, ma non c’è da credere a grandi cambiamenti di cui si parla tanto, senza considerare il fatto che il potere politico statunitense, a differenza di quello del nostro paese, deve convivere e fare i conti con poteri statali autorevoli ed autonomi, come si conviene a una vera Repubblica. Ci sarà più rigore nelle politiche immigratorie; le politiche fiscali per persone fisiche e imprese saranno maggiormente orientate alla riduzione della spesa pubblica, alla riallocazione delle produzioni in patria, e alle politiche di pareggio negli scambi commerciali, con le relative leve di dazi doganali. Ci sarà anche un riordino nei rapporti di alleanza nei vari scacchieri regionali del mondo. Si può dire che non ci sarà nulla di nuovo sotto il sole, al netto dell’influenza del carattere personale, come accadde con Reagan, Bush e tanti altri presidenti repubblicani del secolo scorso.
Per quanto riguarda il rapporto con l’Europa, si sa come la pensano gli americani, e Trump è molto più drastico in tal senso. Infatti, essi ritengono che il bilancio commerciale sia troppo a favore del Vecchio Continente, che non sono più propensi a pagare anche i costi della sicurezza, principalmente le spese della NATO, e che pretendono amicizia, ma senza gli obblighi che ne conseguono. Sarà che gli Stati Uniti sono puntigliosi, ma a me sembra che gli europei non sempre diano l’impressione di aver compreso come gira il mondo.