Underdog. E’ questa l’unica parola straniera usata dalla premier, Giorgia Meloni, nel suo discorso davanti alle Camere. Un segnale, se volete, ma anche una scelta di stile. Solo “underdog”, ovvero lo “sfavorito”, il “perdente”, quello che tutti considerano tale fin dall’inizio della competizione. Termine usato soprattutto nello sport. L’atleta che entra in campo con poche possibilità di farcela. La parola è inglese, ma il concetto è mondiale. Perché Giorgia è una donna che ha sovvertito quella regola.
“Sono la prima donna incaricata come presidente del Consiglio dei ministri nella storia d’Italia, provengo da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini della Repubblica, e non sono certo arrivata fin qui fra le braccia di un contesto familiare e di amicizie influenti”, spiega la presidente del Consiglio, “rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l’underdog, lo sfavorito, per semplificare, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici. Intendo farlo ancora, stravolgere i pronostici, con l’aiuto di una valida squadra di ministri e sottosegretari, con la fiducia e il lavoro dei parlamentari che voteranno favorevolmente, e con gli spunti che arriveranno dalle critiche di coloro che voteranno contro”. Il passaggio, pur nella sua semplicità concettuale, rappresenta un elemento chiave del ragionamento politico della Meloni. Perché il ricorso a quella immagine è la sintesi della complessità dei nostri tempi, della stratificazione dei problemi, dove l’ascensore sociale, e in molti anche fra coloro che siedono in parlamento nemmeno sa cosa sia, è fermo, con le corde tagliate. Volutamente, forse, da una certa politica.
Eppure è fondamentale per lo sviluppo di un paese, per la crescita di una società moderna e contemporanea. Il fatto che la Meloni abbia dedicato un passaggio chiaro, quasi un capitolo a se stante, al mondo giovanile e alle occasioni da offrire e chi non le ha, significa che c’è un lavoro da fare, laddove sino ad oggi nessuno ha mai messo le mani. Sotto questo aspetto il dramma dell’Italia non è solo, o soltanto, essere un paese vecchio, ma l’essere ancorato ad antiche liturgie, tese ad escludere, mai ad includere. Ripartire da lì è un buon segnale.
Il resto del copione della giornata, con il doppio intervento della Meloni alla Camera e al Senato, le repliche delle opposizioni e le perorazioni della maggioranza, ha seguito il copione di sempre. Pd e Cinque Stelle, nel giorno della fiducia al governo Meloni, hanno attaccato a testa bassa la premier e il modello d’Italia che emerge dal suo discorso, parlando di “Un brusco ritorno al passato”, un’ora di “vuota retorica” senza “una parola sulla lotta di liberazione e la Resistenza”. E se Enrico Letta da un lato promette che i dem saranno “guardiani inflessibili” della Costituzione e dall’altro apre alla possibilità di fare scelte insieme sull’Ucraina, Giuseppe Conte preannuncia “un’opposizione implacabile”. “Ha attaccato i più indigenti prospettando l’abolizione del reddito di cittadinanza”, rincara l’alleanza Verdi-SI. Mentre il terzo polo usa toni più soft e in particolare Iv, per voce del coordinatore Ettore Rosato, assegna un sei (la sufficienza) alle parole pronunciate dalla presidente del Consiglio.
Ma è sulla commissione d’inchiesta Covid – cavallo di battaglia di Matteo Renzi – che si crea un asse potenziale con la maggioranza. La Meloni chiede di “fare chiarezza su quanto avvenuto durante la gestione della crisi pandemica”, parole che celano l’intenzione di dare vita a una commissione di inchiesta sulla gestione del Covid e che vengono accolte dal plauso entusiasta di Azione-Iv. “Ottima notizia”, commenta in tempi record la capogruppo al Senato Raffaella Paita. “Non faremo mancare il nostro apporto al governo su questo punto”. La presidente del gruppo coglie l’occasione anche per attaccare il leader del M5s: “Va fatta finalmente luce sulla missione dei sanitari russi che sono entrati nei nostri ospedali sotto il governo Conte”. Non è un mistero che il terzo polo, dopo essere rimasto a bocca asciutta sulle vicepresidenze e i questori d’Aula punti alle commissioni, e quella sul Covid, a questo punto, potrebbe essere un’opzione.
Gli attriti tra le forze di minoranza emergono anche dalle parole del responsabile enti locali del Pd, Francesco Boccia: “Chi ha rotto il campo largo tra progressisti e democratici dovrebbe sentirne sulla pelle, fino in fondo, la responsabilità politica”. Rosato, invece, se la prende proprio con i dem tirando in ballo il segretario definito “il vero grande sponsor di questo governo, l’unico capace di distruggere qualsiasi ipotesi di coalizione con chiunque”. Carlo Calenda apprezza “la parte sulle donne” dell’intervento del capo del governo, insieme alla posizione espressa sul reddito e sul posizionamento internazionale, ma poi chiosa: “Il resto è fuffa. C’è un concreto rischio di galleggiamento”.
Il M5s respinge al mittente le critiche sul reddito di cittadinanza: “Non vorrei che con questo governo di destra si tornasse a dire che quando le cose non vanno è colpa degli ultimi”, interviene per primo Riccardo Ricciardi. Giuseppe Conte accusa Meloni di non aver parlato di “pace” nell’ambito del conflitto Mosca-Kiev e la provoca: “Non è che alla fine l’agenda Draghi la vuole scrivere lei?”. Da tutt’altro presupposto, invece, parte Enrico Letta che rivendica il sostegno al governo Draghi, “che ha fatto bene”. Sul Covid, si dice fiero dell’operato dell’ex ministro Roberto Speranza e chiosa ricordando l’anniversario della Marcia su Roma: “Un anno prima della marcia su Roma, nel luglio del 1921, ci fu un tentativo di fare una marcia su Sarzana, che fu bloccata da due persone, dal capitano dei carabinieri e dal sindaco, che fecero il proprio dovere. In loro memoria e seguendo il loro esempio fate il vostro dovere come governo e noi lo faremo come opposizione”.
Quanto alla Meloni, visibilmente emozionata, ma forse anche un po’ provata per le tensioni degli ultimi giorni, traccia le linee guida del nuovo esecutivo partendo da tre questioni fondamentali: ribadire la convinta adesione dell’Italia all’Ue e alla Nato; assicurare il sostegno a Kiev; necessità di fare le riforme, prime tra tutte quelle per il presidenzialismo e per l’autonomia differenziata. Poi ringrazia Mattarella per “i preziosi consigli”, Papa Francesco e Giovanni Paolo II. E numerose sono le citazioni, da San Benedetto, il santo italiano considerato tra i fondatori d’Europa a Montesquieu. Legge, ma spesso va anche a braccio. Seduta tra i due vicepremier: Matteo Salvini e Antonio Tajani, confessa di sentire sulle spalle tutto il peso di essere la prima donna premier e, lasciando in soffitta finalmente la metafora calcistica, definisce l’Italia come “la nave più bella del mondo”. Una nave che ora è in “piena tempesta” ma che, se rattoppata e aggiustata come si deve, può ancora arrivare felicemente in porto. Che è poi l’obiettivo principale del suo Governo perché “noi – sottolinea – siamo qui per ricucire le vele strappate”. E fra sfavoriti che vincono, giovani che tentano, e tele da rimettere al vento, c’è da ben sperare. O, quantomeno, da attendere i primi segnali per capire chi ha torto e chi ha ragione. La storia si scrive dopo, mai prima…