È non solo giusto ma indispensabile guardare all’immigrazione uscendo dalla gabbia dei numeri, delle strumentalizzazioni politiche e della paura ingiustificata, per renderci conto che si tratta di persone. E quindi di famiglie, donne, uomini, bambini, talvolta persino anziani costretti, malgrado l’età, a compiere il grande passo della fuga dalla propria terra. Ma è anche doveroso per tutti guardare a questo fenomeno, ormai epocale, sulla base dei diritti che occorre garantire. Soprattutto pensando all’Europa, che è storicamente la patria dei diritti umani.
Di fronte ai migranti che bussano alle nostre porte, in gran parte profughi che fuggono da guerre o condizioni di vita insostenibili, sono in particolare tre i diritti che noi europei dovremmo garantire. Il primo, il più importante, è certamente quello alla salvezza. Si calcola che siano oltre 43.500 i morti nel mare Mediterraneo, dall’inizio degli anni Novanta. Inaccettabile, non solo per la pietà umana e cristiana, ma anche, appunto, alla luce di un dovere, quello del soccorso dei naufraghi, scritto a chiare lettere nel Diritto del mare e ostacolato, di fatto, da accordi tra gli Stati che non si preoccupano di “salvare”, ma solo di “contenere” il fenomeno.
Secondo diritto: essere accolti. Appare necessaria un’ospitalità degna e adeguata, troppo spesso negata in centri che non riescono a garantire prospettive di inserimento sociale. E qui giunge il terzo, fondamentale, diritto: quello a essere integrati. Si tratta purtroppo di una dimensione a cui si fa troppa poca attenzione e che invece rappresenta la chiave del futuro: chi arriva ha bisogno di dormire sotto un tetto, mangiare, non soffrire per le condizioni climatiche, ma allo stesso tempo di capire dove si trova, di imparare la lingua, di vedere i propri figli andare a scuola come i loro coetanei italiani ed europei. Che poi è anche la premessa per un inserimento nel mondo del lavoro e della conquista di una propria autonomia.
Occorre davvero che gli Stati considerino questo terzo diritto come essenziale e non secondario, anche per evitare conflitti sociali, che sono quasi sempre frutto di una mancanza di integrazione, soprattutto nelle periferie delle nostre città. E, nel riconsiderare questo diritto, i governi dovrebbero riconoscere un ruolo importante alla società civile. Cioè a tutte quelle realtà che, di fatto, stanno già realizzando un esempio virtuoso di accoglienza e integrazione, prezioso anche come ammortizzatore sociale.
Basta pensare all’esempio dei corridoi umanitari, sullo stile di quelli inaugurati da Sant’Egidio, Chiese protestanti italiane, Cei, insieme a tante realtà presenti in situazioni difficili, come nei campi profughi del Libano la Comunità Papa Giovanni XXIII: una mobilitazione che parte dal basso ma che non per questo è meno professionale. Anzi, è ormai un modello a cui guardano in tanti nella nostra Europa che, tra l’altro, di migranti con flussi di arrivo regolari, ne avrebbe tanto bisogno.