Sono numerose le considerazioni che suscita la decisione del Comitato etico delle Marche di riconoscere (per la prima volta in Italia) ad un tetraplegico i requisiti per accedere al suicidio assistito. Dovremmo anzitutto spiegare che si tratta di una forzatura fatta in assenza di una normativa che legalizzi questa pratica e che la versione integrale del parere non autorizza un bel niente visto che a proposito del requisito della “sofferenza intollerabile”, previsto dalla sentenza Cappato, il Comitato parla di elemento soggettivo di difficile interpretazione, come ha fatto notare Il Centro Studi Livatino.
Tuttavia, prima di entrare nel merito della vicenda, vogliamo sgombrare il campo da ogni giudizio etico e legislativo ed affermare che comprendiamo la sofferenza di Mario (questo il nome di fantasia dato dalla stampa al protagonista della vicenda) il dolore e l’esasperazione provocatogli dalla sua condizione di estrema disabilità.
Il suo scegliere per la morte e non per la vita è una sconfitta di tutti noi, della comunità nazionale e delle istituzioni, insomma di tutti coloro che non sono riusciti a fornire accompagnamento, cure, sostegno amorevole e speranza. Tutti siamo chiamati a custodire la vita, lo ha ribadito chiaramente il Consiglio episcopale della Cei in un Messaggio per la Giornata della Vita del prossimo 6 febbraio 2022. I presuli spiegano che “non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire, ma il prevalere di una concezione antropologica e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. Chi soffre va accompagnato e aiutato a ritrovare ragioni di vita; occorre chiedere l’applicazione della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore”. “Mettere termine a un’esistenza – scrivono – non è mai una vittoria, né della libertà, né dell’umanità, né della democrazia: è quasi sempre il tragico esito di persone lasciate sole con i loro problemi e la loro disperazione”.
La risposta del Comitato etico e delle forze politiche che chiedono a gran voce il diritto alla dolce morte rappresenta quindi un lavaggio di coscienza collettivo mascherato da pietà. Dietro a queste posizioni c’è quella società dello scarto denunciata da Papa Francesco. Inabili, disabili, malati e anziani rappresentano un costo non indifferente per le casse dello Stato. In una società occidentale che invecchia offrire pillole per morire diventa quindi molto più conveniente che fornire cure, assistenza e strutture adeguate a coloro che affrontano il dolore, la malattia o anche il semplice decorso della vecchiaia.
Il presidente del Family Day, Massimo Gandolfini, da medico con oltre 40 anni di sala operatoria, ha parlato spesso dei tagli alla sanità ed è convito che aprire le porte alla completa autodeterminazione della vita umana porterà ben presto alla normalizzazione del suicidio assistito di malati cronici non gravi (curabili ma non guaribili) fino ad arrivare a quello dei depressi e delle persone con problemi psichici che ne faranno richiesta, come avviene in Svizzera e in altre paesi che hanno legalizzato l’eutanasia attiva. Insomma oggi “suicidiamo” un tetraplegico stabilizzato e non in fase terminale della vita e presto arriveremo a dare la morte ad un anziano che ha deciso che è arrivato il momento di farla finita. Una deriva evidente in Belgio e Olanda dove le morti per eutanasia hanno raggiunto il 5 % del totale.
Tutto questo processo mortifero, lastricato di solitudine, è quanto di più lontano dalla compassione, tornare alla cura reciproca e ribadire l’inviolabilità della vita umana è il primo passo per invertire la rotta.