La cronaca torna sul suicidio assistito. Questa volta non si tratta dell’assistenza prestata a chi intendeva togliersi la vita in un’asettica clinica della morte: ci ha già pensato una sentenza, quella resa dalla Corte di Assise di Massa, ad assolvere gli accompagnatori, interpretando estensivamente la decisione della Corte Costituzionale sul caso di Fabiano Antoniani. Quel caso è chiuso, per lo meno per giudici e attivisti pro-eutanasia, e salvo l’esito dell’impugnazione prospettata dal pubblico ministero.
Si tratta di alzare il tiro. E portare alle estreme conseguenze quanto stabilito dalla Consulta; insomma, percorrere la via giudiziaria all’eutanasia, fino in fondo.
Procediamo con ordine. Cosa c’è scritto nella sentenza della Corte? Che l’aiuto al suicidio non è punibile se il proposito è stato assunto, in maniera autonoma, da persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. Queste le condizioni perché chi commette un fatto –tuttora considerato reato dall’art. 580 del codice penale – vada esente da pena.
La Corte ha pure ribadito che dalla nostra carta costituzionale “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Ed ha pure chiarito che non c’è alcun “obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”.
Tutto chiaro? Così sembrerebbe. In realtà, nel momento in cui la vita diventa un bene disponibile, le solenne enunciazioni sul dovere dello Stato di tutelare la vita e, attraverso di essa, la dignità di ogni uomo – anche e soprattutto di chi si trovi in una condizione di vulnerabilità tale da fargli sentire la vita come un peso – diventano vuoti simulacri, esposti alle manipolazioni di chi quella dignità calpesta in nome di un’autodeterminazione senza alcun limite.
Già si è detto dell’estensione operata dai giudici di Massa anche per chi non risulti affetto da patologie irreversibili; e tuttavia siamo sempre nell’ambito dell’aiuto prestato da privati. Perché davvero si realizzi il passaggio da una libertà di suicidarsi con l’aiuto di altri ad un vero e proprio diritto occorre altro. E’ necessario che somministrare la morte diventi un dovere per le strutture pubbliche e per i medici. Lo sanno bene coloro che pianificano da anni le battaglie per presentare come conquiste civili la sistematica demolizione di tutto ciò che rende umano il consorzio sociale. Così come sanno bene che non c’è bisogno di attendere i tempi del legislatore e rischiare che ipotetiche maggioranze retrograde frenino l’avanzata dei nuovi diritti. Sanno, cioè, che possono contare sul sostegno di una magistratura che si è assunta il compito di farsi interprete della coscienza sociale, così come rappresentata dai più illuminati.
Perché dunque – come fa l’associazione Luca Coscioni – minacciare di ricorrere contro la decisione di un’Azienda Sanitaria Locale che si è limitata a ribadire quel che ha scritto la Corte Costituzionale, negando la morte a richiesta? Perché si confida – non senza ragione, visti i precedenti – in un giudice che si sostituisca al legislatore e sanzioni finalmente che c’è un dovere per lo Stato e per i medici di assecondare il proposito di uccidersi.
Il prossimo passo sarà attribuire finalmente agli “esperti” il compito di stabilire quali vite sono ancora degne di essere vissute e quali devono considerarsi oramai compiute. L’Olanda non è poi così lontana.
Domenico Airoma, vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino