Quando si parla di Sud, si pensa ad una patologia, direi quasi una pandemia, per risolvere la quale occorre uno sforzo sovraumano e un dispendio enorme di risorse pubbliche.
Questo è stato il modo in cui si è affrontata la “questione meridionale” nei decenni, sin dalla prima rivoluzione industriale. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti, l’inefficacia di questo metodo è palese.
La cosa certa è che l’Italia è un Paese che evidenzia fratture, disuguaglianze, divisioni.
Ma la vera questione è che si è proposto un progetto economico, stravolgendo al tempo stesso quello sociale.
Le caratteristiche del “progetto Sud” degli ultimi 50 anni sono state l’autoritarismo e l’eterocentrismo, realizzando una sorta di colonizzazione industriale che ha prodotto una serie di effetti nefasti.
I denari formalmente orientati al Sud, sono rimasti nelle tasche degli investitori nazionali ed esteri ed in ultima misura nelle tasche di altre Regioni o Nazioni.
Le risorse investite al Sud hanno finito per creare incrostazioni politico-affaristico-mafiose, determinando spesso vere e proprie “bombe sociali”: dagli insediamenti industriali largamente inquinanti, alle enormi discariche illegali di rifiuti di ogni genere, agli insediamenti abitativi disumani, alla realizzazione di infrastrutture insufficienti e scadenti, al mutamento culturale e sociale forzato di ampi territori.
Tutto ciò ha prodotto e produce ancora oggi la percezione generale che il Sud debba permanere in una condizione di sudditanza psicologica e che non abbia potenzialità endogene da esprimere.
L’immediata conseguenza di questo quadro d’insieme è stata la “fuga dei cervelli”, soprattutto delle giovani generazioni, che sono state indotte a pensare di poter avere un futuro solo lontano dal Sud.
In qualche modo, si è riproposta la catena migratoria che aveva portato i nonni in America e i padri negli insediamenti industriali del Nord.
I giovani hanno scelto soprattutto l’Estero, sia europeo che extraeuropeo e tanti di loro hanno portato ricchezza culturale a sistemi economici già floridi.
È vero che nell’ultimo quinquennio, da quando è emersa una ideologia ecologica, c’è stato un ritorno al Sud, ma ciò è avvenuto in parte per scelta emotiva ed in parte perché il mercato del lavoro in altre parti d’Italia e del Mondo si è saturato.
Se la sfida oggi è quella di colmare i divari territoriali, bisogna partire però da una “rivoluzione culturale” che emancipi le energie umane sparse nel mondo da un sistema costruito sul marciume e sulle collusioni.
Mentre si costruivano Piano e Progetti per il Sud, infatti, il Sud si è svuotato, interi paesi si sono spopolati, mancano servizi essenziali per Comunità generative e, ripeto, mancano infrastrutture efficienti per competere con altri sistemi economici.
La realtà del Sud è quella di una macchina pubblica corrotta o inefficiente, di enti locali in default e senza capacità programmatorie, di una burocrazia asfissiante, di una politica debole e affidata spesso ad amministratori incapaci, di realtà associative di tutela e rappresentanza corporative e per nulla orientate al bene comune.
Insomma, oggi al Sud per portare avanti un progetto di sviluppo, personale o comunitario, occorre abbattere troppi ostacoli e spesso non ne vale la pena.
Manca il lavoro buono, siamo in una realtà tenuta in piedi dal Reddito di Cittadinanza, una misura che ha perso l’opportunità di costruire nuovo capitale umano al servizio delle comunità e dei territori. Ha creato qualche milione di parassiti e qualche migliaio di lavoratori precari (i navigator).
In questo quadro si inserisce il Piano per il Sud 2030, che viene adesso recepito integralmente nel Piano Nazionale sulla Ripresa e Resilienza, e che sconta ancora una volta l’idea di un Sud che va aiutato a crescere, proponendo ricette per farlo che sono identiche alle precedenti.
Lo troviamo scritto con chiarezza nell’ultimo Rapporto Svimez: la condizione di marginalità sociale, economica, politica del Sud è divenuta purtroppo strutturale e senza un’idea di sviluppo concreta.
Le Regioni meridionali sono diventati territori di frontiera, incapaci di contrastare la pandemia, inadatti a fronteggiare i fenomeni già gravi di disgregazione e, per contro, assaliti dal duplice fenomeno migratorio, quello di rientro di tanti cittadini da altre parti d’Italia e d’Europa e quello dei migranti provenienti dal mare Mediterraneo.
Nonostante il Mezzogiorno sia stato e sia la culla di grandi tesori naturalistici, culturali, sociali, si trova purtroppo vittima di se stesso, ancor prima che vittima di politiche predatorie che l’hanno visto da sempre in un tentativo di agganciarsi all’Italia e all’Europa, di salire sul treno dello sviluppo, di avere finalmente infrastrutture efficienti.
Ecco perché da tempo affermo che al Sud lo sviluppo sia piuttosto legato al cambiamento culturale che alla capacità imprenditiva del capitale umano.
Perché il Sud avrebbe tutto per costruire un futuro virtuoso, ma non riesce a farlo per via delle lobbies che lo hanno “spremuto” fino a soffocarlo e che non permettono di liberare le energie positive che ancora ci sono, non favorendo anche il rientro di chi è andato via a causa delle scelte scellerate.
Com’è ormai evidente, dunque, non basta incrementare le risorse. Occorre migliorare la capacità di spesa e la sua qualità. Serve un progetto, una capacità dell’amministrazione pubblica di agire per “missioni” e conseguire risultati, che abbia effetti immediati e offra una prospettiva. Un progetto si basa per definizione su una visione di trasformazione di medio termine, che a sua volta può svilupparsi solo incidendo da subito con determinazione sulle condizioni di contesto attuali.
Un progetto non dice solo cosa si vuole fare ma anche come, in quali tempi, con quali impegni e con la responsabilità di chi.
Ma un progetto è un’azione comunitaria, non può essere né verticistica, né pubblica, né eterocentrata: impone condivisione nella Comunità, deve essere costruita secondo un processo di condivisione e cooperazione, con obiettivi dichiarati e comprensibili.
Un progetto è organizzazione dell’azione per il cambiamento, che tiene conto del disegno complessivo ma punta consapevolmente a priorità che sono nodi cruciali dello sviluppo e (anche) condizioni abilitanti per la crescita di tutte le componenti dell’economia del Sud.
Se è vero che ci sono le risorse economiche, che ci sono le risorse umane, che ci sono le risorse naturalistiche, allora occorre che siano tutte protagoniste allo stesso modo e che i processi programmatori ed erogatori rispettino il giusto mix di questi fattori.
Al Sud serve uno shock e quello più efficace è consentire alle donne e agli uomini del Sud di agire politiche nuove, moderne, efficaci con regole trasparenti ed efficienti.
Le risorse economiche presenti o messe a disposizione vanno programmate e spese con procedure che siano tempestive e non siano a rischio di corruttela o collusione, anche innestando nel sistema energie umane nuove e prive di incrostazioni.
Vanno migliorate le condizioni di vita delle persone, a partire dai bambini; vanno migliorate le infrastrutture e i processi educativi; vanno consentite a tutti le giuste cure; va consentito a tutti di avere un’abitazione; occorre creare lavoro buono, sia nel settore pubblico che in quello privato e deve esserci un automatismo fra sussidi pubblici e impegno sociale per la collettività.
Serve, insomma, che le Comunità tornino ad essere protagoniste, a darsi regole di convivenza civile e di sviluppo endogeno, a tutelare tutti i cittadini a partire dai piccoli e dai fragili, a tutelare i loro territori.
Il Sud può essere il terreno di sperimentazione di una vera transizione ecologica che parta dalla convinzione nei cittadini che il territorio è la casa comune ed anche la mia, che devo averne rispetto, che occorre valorizzarlo e renderlo fertile, produttivo.
In fondo, se il patrimonio migliore per il Sud è il suo territorio, va affidata alla gente del Sud la sua tutela e valorizzazione, eliminando radicalmente tutto ciò che inibisce questo percorso di transizione.