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Strana guerra, pace incerta

Strana guerra sul fronte orientale. Prevista, annunciata, persino descritta nei particolari ancor prima che si svolgesse. L’attacco aereo iraniano era atteso in Israele ma non con la tensione di chi sente arrivare l’imminente flagello, quanto semmai con la calma calcolata di chi stacca la corrente di casa perché sa che sta per giungere un forte temporale. Il risultato in fondo è stato quello, perché l’1 percento dei droni lanciati dall’Iran (tanta è la percentuale) è arrivato a destinazione, con pochi danni alle cose e alle persone. Che, comunque, sono sempre troppi.

Dopo il 7 ottobre, con le criminali incursioni di Hamas, Netanyahu non ci aveva pensato un attimo a reagire, lasciando Biden a sgolarsi e a fare i conti con l’elettorato americano di origine araba (un fenomeno, quest’ultimo, che meriterebbe un commento a parte perché rappresenta la vera novità politica degli ultimi anni). Questa volta accetta il consiglio di Washington: si prende la vittoria perché battere l’avversario 99 a 1 non è roba di tutti i giorni, dimostra di aver garantito la sicurezza, guarda oltre seppur promettendo future rivalse. Insomma, lo scontro frontale pare al momento scongiurato, ringraziamone il Cielo.

Il fatto è che un ulteriore fronte bellico non conviene a nessuno: l’Iran non è evidentemente pronto, Israele si sta accorgendo di quanto sia difficile tenere Gaza e dintorni, gli Usa desiderano tutto meno che una complicazione del quadro internazionale. Persino la Russia e la Cina non gradirebbero l’intorcinarsi della crisi mentre i paesi arabi avrebbero tutto da perderci, anche in caso di sconfitta iraniana. Figuriamoci se la desiderano: più o meno come desiderano la vittoria dell’Iran. Basta così, quindi: ognuno salvi la faccia, nessuno la perda. Tutti ne saranno grati. Il nuovo teatro della Terza Guerra Mondiale a pezzi resti chiuso, almeno fino a nuovo ordine. Il che non vuol dire che sia scoppiata la pace, ma almeno si guadagna tempo e non è poco. Nel mentre, chissà, potrebbe scapparci una buona notizia: la tregua a Gaza o almeno un cessare del crepitare delle armi.

La verità è che la tensione che si è sprigionata a livello internazionale ci sta ponendo sempre più spesso di fronte al dilemma di scegliere tra la pace e la battaglia dell’Armageddon, e la scelta a quel punto è scontata. Persino Israele, rovesciando una tendenza quasi ventennale, si è appellato alle Nazioni Unite, fin qui definite uno strumento corrotto e privo di autorevolezza. Solo che una strana guerra sempre una guerra resta, con tutti i rischi connessi.

Non è sufficiente, allora, pensare che un precario equilibrio tra le nazioni basti di per sé a evitare il peggio. Occorre piuttosto un’azione diplomatica che sappia d’audacia e sia intrapresa da una potenza mondiale e come tale riconosciuta. Una c’è, anche se in questo momento parzialmente paralizzata dagli appuntamenti elettorali imminenti e dall’ambiguità della linea politica di una parte del proprio parlamento. Restiamo quindi in attesa dell’imponderabile, perché è chiaro che un equilibrio internazionale che si regge sugli stecchi può essere mandato in frantumi anche da un solo colpo di pistola. Uno solo. Come a Sarajevo.

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