Editoriale

Gli spiragli della diplomazia

Le dimissioni di Joe Biden riaprono i confronti, aprono spiragli, rendono immaginabili cose che nemmeno una settimana fa sembravano impossibili. È la diplomazia: salta una pedina, cambiano gli equilibri. E dando coraggiosamente l’addio ai sogni di rielezione il Presidente americano ha fatto più o meno quello che faceva, con altri mezzi ed altri intendimenti, il Re Sole. Il quale, scrive Voltaire, reagiva alle situazioni di stallo internazionale attaccando – senza motivo apparente – l’Olanda. Scattavano le alleanze, reagivano i sovrani e tutto si rimescolava.

Fortunatamente Biden ha scelto un altro metodo ma il risultato è sempre quello, ed ora tutto è tornato a muoversi: altro che quell’attesa piena di ansia che ci pervadeva in vista dell’esito delle presidenziali di novembre. Adesso il termine temporale è spostato a gennaio, cioè a quando si insedierà il nuovo inquilino della Casa Bianca, ma i mesi che ci mancano si sono trasformati in una grande opportunità. Lo ha scritto, l’altro giorno, anche l’Osservatore Romano: a Washington l’inquilino uscente ha le mani libere, può fare molto in Ucraina e Medioriente.

Non è stato un caso che la rinuncia di Biden sia giunta, quindi, alla vigilia della missione negli Usa di Netanyahu. Per l’appunto, Biden ora è più libero nei suoi confronti. Israele lo sa bene, ed ha reagito a sua volta con prontezza di riflessi. La presenza del presidente israeliano Isaac Herzog a Parigi, poi a Roma, poi di nuovo a Parigi lo testimonia.

Israele ha un problema: la guerra di Gaza non si sta risolvendo in un trionfo né sul campo né tra le cancellerie. Nemmeno nel fronte interno. Uscirne è al momento impossibile, restarvi molto difficile. L’Isolamento internazionale è un rischio ben palpabile. Per questo, mentre il capo del governo va a Washington, il capo dello Stato va in due paesi chiave dell’Europa, i due che più degli altri hanno una tradizione di coinvolgimento nel Mediterraneo.

Parigi una volta forniva i Mirage all’aviazione israeliana, ma dai tempi di Chirac è tornata su posizioni meno sbilanciate. Roma, dai tempi di Andreotti per non dire Moro, ha sempre parlato di “equivicinanza” tra le parti coinvolte nel conflitto arabo-israeliano. E di equivicinanza ha parlato lo stesso governo Meloni, pur essendo esso vicino alle parti, ma non sempre allo stesso modo. L’ambasciatore italiano che due settimane fa ha iniziato il suo mandato in Israele, lo ha fatto andando proprio da Herzog con appuntata al bavero la spilletta della campagna per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

Facile allora immaginare il contenuto dei colloqui tra Herzog e Meloni, o tra Herzog e Tajani (da sempre molto vicino alle istanze israeliane). Poi è in programma un incontro con Sergio Mattarella il quale, si ricordi, non è titolare della politica estera italiana (mentre Macron lo è di quella francese).

Mattarella è intervenuto più volte sul dramma della guerra di Gaza, scatenata dagli orrendi massacri del 7 ottobre, perpetrati da Hamas, e proseguita con le azioni militari israeliane. Oltre mille morti il 7 ottobre, oltre 39.000 nei mesi successivi. Il primo atto, quello che ha scatenato la guerra, ha reso gli uomini di Hamas protagonisti di un’azione che ricorda da vicino l’indicibile della Shoah, è la posizione del Presidente della Repubblica, e il destino degli ostaggi ancora nelle mani dei rapitori riempi di angoscia: devono essere liberati.

Ma, infine, Israele non può pensare di poter costruire la propria sicurezza, quella sancita anche dalle risoluzioni dell’Onu, sulla negazione dell’altrui diritto ad avere una propria patria, uno Stato in cui vivere in pace. Questo proprio no. Probabilmente, con l’usuale garbo che la diplomazia e la personale cortesia giustamente impongono, verrà ribadito. In attesa, magari, che il sommovimento scatenato dalla rinuncia di Biden non generi i suoi frutti.

Nicola Innocenti

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