Il rapporto del’associazione Antigone su salute, tecnologie, spazi e vita interna nelle carceri italiani ha evidenziato come, nonostante gli sforzi dello Stato negli scorsi mesi per decongestionarle, attraverso il ricorso alle comunità esterne, ha messo in luce come gli istituti penitenziari siano sovraffollati.
A monte c’è una della lentezza della giustizia italiana nella valutazione dei reati. Questo non aiuta a far sì che ci sia una certezza della pena e del recupero. Quando la persona viene condannata, prioritariamente, la via del carcere è quella imboccata. Per cui c’è sovraffollamento, c’è un aumento della mentalità criminale perché nel carcere, a volte, ogni tipo di reato si consulta, si assomma, si acquisisce. C’è poi tutta la dimensione della non possibilità lavorativa, se non in forma residuale, anche l’ozio non aiuta la vita e il recupero, non aiuta quella parte buona, positiva che c’è nella persona. Come diceva don Oreste Benzi: “L’uomo non è il suo errore”.
Bisognerebbe lavorare su questa possibilità di recupero ed è per questo che da sempre, come Comunità Papa Giovanni XXIII, proponiamo, dove è possibile, un modello alternativo, comunitario, educativo, relazionale, pedagogico e lavorativo.
Non c’è una linea generale per rieducare la persona in quanto ognuna ha una storia. Mi hanno chiamato per l’accoglienza di un giovane che ha compiuto un omicidio. Lo abbiamo accolto in un nostro Cec, le comunità educanti con i carcerati. Questa persona ha anche delle sofferenze a livello psichiatrico. Bisogna entrare nella storia di ognuno, il recupero non ha delle regole generali. Si parte dall’accettazione della persona, della sua storia, delle sue ferite che lo hanno portato a compiere il reato.
Il percorso riabilitativo si inserisce in una vita comunitaria, siamo 24 ore su 24 con loro, cercano di ascoltare quelle ferite profonde e di cogliere quelle istanze positive. Certo è che a volte bisogna accompagnare il tutto con un supporto medico, psicologico e farmacologico. Tutte le scienze umane possono essere importanti. Nel nostro percorso c’è anche la dimensione spirituale, sempre molto rispettosa, ma riteniamo essenziale. Ogni uomo che incontra il buon Dio, scopre quella parte importante di sé che può diventare dono.
Per la rieducazione dei detenuti è molto importante l’incontro con dei “tu” significativi, degli esempi che possano osservare mentre lavorano, parlano, si muovono, interagiscono con le altre persone. E’ ovvio che anche questa dimensione relazionale va affiancata da una normativa. E’ altrettanto importante l’apertura al territorio, il rapporto con i volontari e anche, a volte, la presenza dei ragazzi recuperandi in attività sportive, culturali, di servizio, di essere attenti all’ambiente. Si porta avanti un lavoro educativo di corresponsabilizzazione molto importante.
Bisogna fare prevenzione, un lavoro educativo a monte, investire molto sui giovani, sulla scuola, sul dare lavoro. Questo è fondamentale. Quando la persona non ha competenze intellettive, culturali sviluppate, non ha un lavoro, non ha la possibilità di crescere in famiglia, arriva a delinquere e rischia di cadere nella malavita.
Il governo come prima azione dovrebbe fare prevenzione. Poi dovrebbe rendere umane le carceri, anche numericamente; dare la possibilità di studiare, di lavorare, fare attività sportiva, di partecipare alla religione, secondo i rispettivi credi. Inoltre, deve facilitare tutti quei percorsi alternativi, ovviamente certificati, di comunità che ci sono in Italia, del terzo settore, del no-profit che con competenza, accolgono in pena alternativa i detenuti portando la recidiva dall’80% al 15% con una spesa economica molto inferiore. Bisogna cambiare anche le leggi perché bisogna rendere possibili queste cose.