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Gli stili di vita della società che rovinano le donne

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Durante questi 20 anni di servizio contro la tratta di esseri umani ho incontrato molte giovani donne vittime della tratta di persone e conseguente sfruttamento sessuale nel nostro paese. La storia che vorrei raccontarvi è una storia molto toccante, un rapporto di amicizia che dura da 11 anni e che non ha mai smesso di stupirmi e meravigliarmi.
È la storia di Mercy, una giovane donna nigeriana che, come molte altre, è arrivata in giovane età in Itala in modo illegale ed è stata schiavizzata e sfruttata sulle strade da molti nostri connazionali.

Partirò dall’inizio, dalla storia di Mercy. Mercy è nata in Nigeria 47 anni fa. Nel 1999 viene portata illegalmente in Italia e ridotta in una situazione di schiavitù sessuale sulle nostre strade.
Ci siamo incontrate per la prima volta in un reparto dell’ospedale di Piacenza nel 2010, infatti, è stata vittima di un ictus, venutole sulla strada, di notte, mentre era costretta alla prostituzione.
Dopo mesi di degenza, durante i colloqui, è emerso il vissuto di Mercy di grande sofferenza e preoccupazione, legato ad una condizione di acquisita disabilità e all’incertezza sul futuro. Gradualmente inizia a confidare con fatica il suo dolore più profondo, un passato di angoscia e paura, legato ad uno sfruttamento nella prostituzione che l’aveva portata dalla città di Torino, dove viveva da diversi anni, a Piacenza, dov’era giunta da una settimana appena quando si è sentita male all’improvviso, svenendo per strada per via di un forte ictus e rimanendo sulla strada in quelle condizioni per una notte intera.

In passato non era mai riuscita a chiedere aiuto, sebbene fosse intenzionata a sottrarsi ai continui soprusi cui era sottoposta dalla sua sfruttatrice; temeva, infatti, possibili ripercussioni per sé e per la propria famiglia rimasta nel paese d’origine. Non ha mai voluto sporgere denuncia contro i suoi sfruttatori in quanto si è da sempre assunta tutta la “colpa” del suo percorso di vita, desiderosa però di poter recuperare una speranza di vita, di dignità, d’identità.

Data la situazione di fragilità psico-fisica e sociale di Mercy ed in vista della sua dimissione dall’Ospedale, i Servizi Sociali avevano provveduto a contattare, nel corso dei mesi, diversi servizi socio-sanitari presenti sul territorio nazionale, sia di natura pubblica che privata, ai fini della predisposizione di un progetto di tutela globale della persona, attraverso un programma di protezione sociale in grado di farsi carico anche della situazione di disabilità della donna.

Era stato escluso il rimpatrio coattivo nel paese d’origine, in quanto avrebbe potuto causarle una situazione di grave pericolo. Neanche l’ipotesi di un rimpatrio volontario assistito era la situazione opportuna, infatti l’associazione Slaves no More, contattata per l’occasione, comunicava che non era possibile far tornare la ragazza in Nigeria viste le condizioni fisiche e psicologiche di Mercy.
Il giorno in cui ho incontrato Mercy ero stata invitata a parlare ad un incontro di religiose sul tema della tratta di persone. L’assistente sociale che la seguiva, ha insistito affinché io andassi nel reparto di Mercy e la incontrassi. Mercy infatti sarebbe stata dimessa dopo qualche giorno e le sue condizioni psico-fisiche non le permettevano di vivere autonomamente, per questa ragione dovevamo trovare un luogo in cui lei potesse vivere serenamente e dignitosamente.

Quando sono arrivata nel reparto, insieme a Mercy, mi stavano aspettando anche i medici che l’avevano accolta e curata, insieme alle infermiere. Si poteva sentire l’affetto e l’attenzione che tutto lo staff provava per quella giovane donna rovinata dai nostri stili di vita.
Ritornata a Roma ho contattato la Superiora Generale del Cottolengo, parlando della situazione di Mercy e chiedendo la possibilità di una sistemazione in una delle loro case di accoglienza. Al termine della conversazione la Superiora risponde: “Se proprio Mercy non ha nessun contatto familiare il Cottolengo deve essere la sua famiglia!”.
Questa risposta per me fu un gran sollievo e la certezza di aver trovato una sistemazione adeguata. Pochi giorni dopo Mercy è stata accolta in una casa di accoglienza gestita dalle suore del Cottolengo.

Dal 2010 Mercy vive serenamente la sua vita in questa struttura con persone che l’accudiscono con amore e che sono diventate la sua nuova famiglia.
È nata così la nostra amicizia. Non ci siamo mai perse di vista e siamo rimaste in contatto telefonandoci e parlando. Ancora oggi, grazie ad un cellulare che, complice l’associazione, le abbiamo regalato ci sentiamo, ci mandiamo foto e notizie.

Da questa storia terribile e di un’umanità incredibile ho appreso alcuni insegnamenti che mi piacerebbe condividere con voi. Innanzitutto la forza del lavoro di rete, che riesce a trovare risposte adeguate anche di fronte a sfide o realtà difficili ed incomprensibili. Infatti mettendo insieme le nostre povertà esse diventano una grande ricchezza per l’umanità intera e soprattutto per chi si trova in difficoltà.
Per quanto riguarda la mia missione nella lotta alla tratta e sfruttamento di esseri umani ha inizio in un Centro ascolto di Torino per donne immigrate, negli anni ’90, dopo il mio rientro dall’Africa dopo 26 anni di missione in Kenya. È stato proprio il grido di una donna nigeriana che chiedeva aiuto a svegliarmi dal sogno di ritornare in Africa, facendomi capire che la mia missione doveva continuare nel mio paese. Da quell’urlo “Sister please help me!” la mia vita missionaria è drasticamente cambiata. Non più tra giovani donne africane in Africa bensì nel mio paese, prima a Torino e poi a Roma.

Quella giovane donna ha cambiato il mio prospetto di missione, diventando la mia catechista: vittima della nuova tratta di esseri umani e delle molte violenze fisiche e psicologiche subite di notte dai clienti e di giorno dalle maman che la costringevano a prostituirsi sulle strade a pagamento.

Suor Eugenia Bonetti: