Tra pochi giorni, quando le urne saranno chiuse, sapremo se anche il cuore dell’Europa – il suo motore immobile – avrà deciso di battere a destra. Non sarà una scelta destinata a restare senza conseguenze: in un modo come nell’altro. La Germania, dal ’45, è stata tutto quello che il Continente avrebbe dovuto essere: pacifica, disposta all’introspezione e alla mortificazione dell’ego, creatrice di ricchezza per sé e gli altri. Una forza tranquilla e serena, in uno schema che è stato persino premiato dalla Storia (e non è detto che accada) il 9 novembre di 36 anni fa: Einigkeit und Recht und Freiheit für das deutsche Vaterland.
Oggi questa storia di successo sembra regredire per tornare a dopo la morte di Stresemann: una sinistra incapace di assumersi responsabilità, un centro che non tiene se non a corrente alternata. Una destra – pericolosa, pericolosissima – pronta a prosperare sulle debolezze dell’ordine democratico. Le prospettive non sono buone per nessuno. La Spd si trova in difficoltà a sinistra sia per l’incalzare della Linke, sia per l’insorgere di una forza antisistema, Bündnis, guidata da una certa Sahra Wagenknecht che potrebbe benissimo chiamarsi Liebknecht. La Cdu-Csu ha tentato la volta a destra sui migranti, e mal gliene incolse. Sarà maggioranza relativa, ma le lacerazioni sono destinate a manifestarsi quando mancherà il collante di un governo autonomo e forte. I Verdi hanno fallito l’occasione storia della coalizione appena naufragata: anche se dovessero rientrare in un governo, la loro ideologia green e poco attenta alla persona umana ha il fiato cortissimo.
Poi c’è la destra, e qui il discorso si fa cupo. Se c’è, infatti, un elemento interessante in questa campagna elettorale ormai al termine, questo è la spaccatura che si è registrata nella Cdu al momento del voto, nel Bundestag, della mozione sui migranti che aveva ricevuto l’avallo della destra estrema. Il centro ha tenuto, il centro si è imposto nel suo no alla destra: esattamente come, dall’altra parte del Reno, hanno fatto i Repubblicani neogollisti di fronte allo sciagurato accordo elettorale tra il loro leader Ciotti e Marine Le Pen. Qualcuno, a Berlino, deve essersi ricordato del disastro che fu il governo von Papen. Esiste un DNA anche per le democrazie.
Sulla destra, poi, incombe il recente fallimento del tentativo della FPOE in Austria, dove Herbert Kickl ha scoperto di non essere digeribile per nessuno: potrebbe accadere presto anche alla signora Alice Weidel. Ma l’uno e l’altra possono vantare di avere il tempo dalla loro parte: attendere un turno elettorale in più vuol dire poco, se questo serve a rafforzare le loro sempre più cospicue minoranze. E le loro minoranze sempre più cospicue lo sono perché nessuno, né al centro, né a sinistra, ha lavorato negli ultimi decenni per evitare che si rafforzassero. Alludiamo qui al costante depauperamento del ceto medio, al blocco dell’ascensore sociale, all’imposizione – magari nel nome del rigore di bilancio – di sistemi economici e sociali che hanno visto l’accumularsi di capitali in un numero sempre minore di mani. Insomma, tutto il contrario di quanto era stato costruito nell’immediato dopoguerra, in un modello che in Germania era chiamato renano e da noi economia sociale di mercato. Un modello ora liquidato come socialista, in realtà nella sua essenza democratico-cristiano.
Dai tempi di Waigel, per non dire di Schaeuble, la lezione è stata dimenticata nel nome di quella che Ralf Dahrendorf ha definito la progressiva trasformazione della Cdu-Csu in un partito, da democristiano che era, conservatore. Ma anche una socialdemocrazia a corto di idee come quella tedesca ha subito la stessa regressione, fin dai tempi della Neue Mitte del cancelliere futuro dirigente della russa Rosneft chiamato Gerhard Schroeder.
Certi errori si pagano, non si sfugge. La Germania è ancora in tempo per recuperare? Chi lo sa. È certo, però, che se non lo farà il cuore europeo batterà a destra. E sarà un battere contronatura.