“Il mondo non ha bisogno di ripetitori sonnambuli di quello che c’è già”. Pensando a Santo Stefano, mi è tornata in mente questa parola detta da Papa Francesco qualche settimana fa. Perchè Stefano non è certo stato un ripetitore sonnambulo, ma un capocordata, scelto da Dio per aprire cose nuove nella prima Chiesa.
Dopo Pentecoste, i discepoli del Maestro crocifisso e risorto si mettono in cammino e “ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,47). Ma fin da subito cominciano le difficoltà: non solo le prime persecuzioni, ma anche divisioni interne: “aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove” (At 6,1). La storia si ripete sempre uguale, verrebbe da dire, perché il cuore dell’uomo è sempre troppo piccolo e meschino…
Gli Apostoli però hanno coraggio e inventano i diaconi: sette, e il primo nominato è “Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo” (At 6, 5). Protodiacono, che organizza l’assistenza alle donne povere della comunità; perché le vedove, gli orfani, gli stranieri sono “la carne viva di Cristo” (Papa Francesco), e non puoi annunciare Cristo senza servirli: sono nostri “padroni e maestri” (San Vincenzo de’ Paoli)!
Ma la diaconia di Stefano e la sapienza con la quale annuncia il Signore suscitano invidia e odio. Il protodiacono diventa allora il protomartire, come narra Luca in At 7. E ancora una volta avvia un cammino: di conformazione al Cristo fino al dono della vita.
Da Stefano in poi (lo sappiamo, anche se ci è comodo non pensarci!), una schiera ininterrotta di martiri, somigliantissimi al Signore Gesù, uomini e donne di ogni confessione cristiana (e anche di ogni religione), che “hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7,14): 2000 anni di persecuzioni e di sistematica violazione della libertà religiosa, declamata soltanto a parole…
Forse, queste parole profetiche di Sant’Oscar Romero possono sintetizzare bene il senso di ogni martirio (che è tutt’altra cosa da un eroismo volontarista): “il martirio è una grazia che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, che il mio sangue sia segno di libertà e segno che la speranza sia presto una realtà”. Soltanto mettendoci in ascolto dei martiri potremo imparare davvero la via del vangelo!
Ma se qualcuno ha avuto la pazienza di leggere fin qui, potrà forse chiedersi quale rapporto ci possa essere tra la testimonianza di Stefano e il Natale che ieri abbiamo celebrato. Non mi sembra difficile intuirlo: perché la vita nasce dal dono. Il dono dei martiri, ma anche il dono di Maria, che consegna a Dio la sua vita e la sua obbedienza: “ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). E’ il suo “martirio bianco”, che inaugura quella che Madeleine Delbrel chiamerà “la passione delle pazienze”: perché “le parole non sono fatte per rimanere inerti nei nostri libri, ma per prenderci e correre il mondo in noi”.
Siamo tutti andati al presepe nei giorni scorsi (a Betlemme, quindi!), contemplando con meraviglia grata il Dio fatto Bambino, e abbiamo trovato la mangiatoia dalla quale nasce la speranza. Perchè davvero “dai diamanti non nasce niente” (De Andrè), e solo dal dono nasce quella Vita che a tutti dà vita e speranza. E’ la grazia del martirio e, ancor più, è la grazia del Natale.